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Ciao Giulio re dei meccanici

Ciao Giulio re dei meccanici

8 mag 2013



Aveva 87 anni e tante di quelle corse negli occhi che a vederli veniva voglia di guardarci dentro, quasi fosserò oblò capaci di rispalancare un mondo antico, bello e perduto. Il suo. Fatto di Maserati e Ferrari, di Nuvolari, Fangio e Regazzoni, di Forghieri e del Drake. Giulio Borsari era nato a Montale, presso Modena, e fino al 27 marzo scorso di mestiere ha fatto Giulio Borsari, perché di capo-meccanici così c’era solo lui. Era uno scrigno di ricordi, di trionfi, di passioni. Ma anche custode fedele di segreti, di nodi mai sciolti, di mezzi misteri avvolti in leggende metropolitane che lo vedevano ogni volta glissare, elegantemente scantonare a precisa domanda, con la quieta e discreta saggezza di chi vuol commentare la vita con la testimonianza e non la sensazione.

 

Quel mondiale 1970 che fu bene perdere
Dica, Borsari, è vero che il mondiale 1970, quello vinto postumo da Jochen Rindt, da Monza in poi la Ferrari fece tutto per perderlo? Su, lei non può non sapere. Se le Rosse dovevano rompersi una volta di più non c’erano mani migliori delle sue per fare il lavoretto... «No, non mi dire così - rispondeva -. Io dal primo all’ultimo giorno della mia carriera ho fatto sempre e solo il mio dovere. E questo che volessi sinceramente bene al mio pilota, come è stato nel caso di Clay Regazzoni, oppure che per lui provassi solo simpatia o voglia di fargli finire la corsa sano, come è stato per quelli che ho avuto. Guarda, la Ferrari quel mondiale lo perse e avrebbe potuto vincerlo battendo un campione che non c’era più. Non è andata in questo modo e ti dico solo che penso sia un bene sia finita così». Le stesse parole di Mauro Forghieri, sulla faccenda. Quel mondiale si decide al Watkins Glen. Il ferrarista Ickx salta in testa e francamente il gioco pare fatto. E invece no. Si rompe il raccordo della benzina. «No, no, momento: il raccordo si era rotto anche in prova, tanto che io stesso l’avevo aggiuse stato. S’era danneggiato proprio dove c’era la saldatura a 90 gradi e l’avevo riparato io stesso, tanto che montai proprio quello fatto da me, grosso, antiestetico ma in teoria del tutto sicuro. Su, non fu un autosabotaggio, ma solo una di quelle cose che possono capitare. E ricordo anche che il montepremi del Watkins Glen era il più ricco del campionato, quindi se si voleva correre per perdere c’erano altri posti più furbi per farlo». Nient’altro.



Il miracolo di Ontario
Va be’, poco male, allora. Il giorno dell’immenso trionfo personale di Giulio Borsari è solo rimandato e non se ne parlerà mai abbastanza. E più che un dì di gloria è la settimana intera che precede il Questor Gp a Ontario, gara non valida per il mondiale 1971 e alla quale la Ferrari prende parte con Ickx e Andretti. Morale della favola, sul nuovo tracciato il mercoledì delle libere “Piedone” picchia duro riducendo la sua 312 B un mezzo groviglio e al box del Cavallino non c’è il muletto. Bisogna fare il miracolo e ricostruire con la forza delle sole mani la Ferrari entro le 18 di sabato, per le qualificazioni, poi si vedrà. Giulio ci mette l’anima. Con i meccanici Levoni, Castelli e Chiodi si tuffa su quella Formula 1 che sembra ormai un indecifrabile capolavoro d’arte moderna e gli ridà forma e vita. Manca il piano di riscontro, ma lui con dei gessetti traccia i riferimenti essenziali della macchina, staffata sul pavimento. Poi si fa portare la monoposto di Ickx, quella ancora sana, e la prende come punto di riferimento per ricavare le quote di sospensioni, radiatore e pedaliera. Quindi si tratta di fare gli artisti col saldatore autogeno e poi raddrizzare e riallineare il telaio. Borsari non ha paura. Ci crede. In quel momento non è un semplice capo-meccanico, ma un rinascimentale “homo faber” in grado di dare virtù alla massa metallica informe. È un uomo di cultura alle prese col suo capolavoro. Salda, sferraglia e poi controlla col calibro e il metro. Morale: il venerdì la vettura ha ripreso forma e sta in piedi. Mancano solo radiatore, assetto, spurgo freni e carrozzeria. Roba rimandata al sabato, quando Borsari medesimo accende il motore facendo un paio d’affondi con l’acceleratore, giusto per vedere che tutto giri a dovere. C’è bisogno di una sola regolazione in prova, per il resto va tutto bene. Andretti è 11° su 31 partecipanti. Il giorno dopo, al termine delle due manche di 100 miglia ciascuna, l’italo-americano si aggiudica il Questor Grand Prix su una Ferrari ormai più realizzata da Borsari che dal suo ideatore Forghieri. E il signore dalle mani d’oro viene premiato con la targa speciale di “Mechanic of the Race”, nel giorno in cui l’uomo in cacciavite è più padrone della vittoria di quello in casco e tuta. Chapeau.



La gran delusione del Glen 1974
E poi c’è la ferita aperta. Il mondialone perso dall’amato Clay Regazzoni, quattro anni più tardi in quella domenica maledetta che poteva diventare la più bella in tutta la vita di Giulio Borsari e invece si tramuta in quella sportivamente più amara. Siamo ancora al Watkins Glen e corre il 6 ottobre 1974 e corre pure il mondiale di F.1 per il Gp decisivo della stagione, nel quale si sfidano Clay Regazzoni su Ferrari e Emerson Fittipaldi su McLaren. Al termine della gara uno solo sarà campione e l’altro sconfitto. Pronti-via e lo svizzero è davanti a Fittipaldi. Il più sembra fatto. E invece no. Dalla seconda curva in poi Clay non sente più la macchina. Che trova semplicemente inguidabile. Cosa è successo? Il sabato Borsari ha vissuto una vigilia insonne in quella che lui stesso amava definire la “notte dei duri ammortizzatori”. Qualcuno ha sbagliato e mica di poco. Perché Clay si ferma ai box con problemi di tenuta di strada e il mondiale sfuma. Il “Baffo” la prende con filosofia e dice all’affranto e fraterno Borsari: «Dai, Giulio, vinceremo un’altra volta». E l’altro, di rimando: «No, Clay, tu il titolo non lo vinci più!». È forse una delle battute più note di Borsari, l’emblema di uno sconforto passionale che non mitiga la sua fredda, chirirgica analiticità: in Ferrari è ormai iniziata l’era Lauda.



Frammento prezioso d’un disegno grande
La storia meccanica del ventenne Borsari inizia in realtà nel dopoguerra con l’entrata in Maserati, dove resta fino al 1957, l’anno del glorioso mondiale titolo di Juan-Manuel Fangio. Quando ricorda quegli anni, Borsari non può fare a meno di rammentare la 1000 Miglia del 1948, con Nuvolari e Scapinelli in fuga nell’abitacolo della Ferrari 166 Sc che va in pezzi fendendo l’Italia. Giulio , 23enne, è addetto all’assistenza clienti Maserati a Modena, ma quando vede Tazio per un attimo s’abbandona: «Fu un passaggio trionfale. Anch’io, che ero lì per la Maserati, avversaria del Cavallino, non potevo che tifare per lui, accolto in città da un tifo da stadio che univa e faceva perdere senso d’essere delle fazioni rivali». In seguito, con la crisi della Maserati successiva al fantastico ma oneroso 1957, passa alla Scuderia Centro-Sud, agli ordini del vulcanico Mimmo Dei, dove vive le corse nella dimensione più umana, calda e minimalista del team privatissimo. È solo l’anticamera del salto di qualità, che avviene nel 1962 con l’approdo alla Ferrari che è in fase di ristrutturazione e rinascita, appunto come meccanico, salvo divenire dopo due sole annate capomeccanico per la F1, fino al 1973. Dal 1974 al 1976 è l’angelo custode in tuta di Clay Regazzoni, vivendo più tardi dal di dentro l’inizio della “Febbre Villeneuve”. A fine carriera, nel 1982, aveva dato alle stampe un proprio libro “La Ferrari in tuta”, scritto a quattro mani col grande Cesare De Agostini, pubblicato a puntate proprio su Autosprint, con la copia numero 1 regalata a Enzo Ferrari e la numero 2 all’amato Clay. Nel 1988 aveva dato vita al “Club Meccanici Anziani Formula Uno”, divenendo una sorta d’ambasciatore in incognito degli anni ruggenti della Formula 1 e della Ferrari, a mille serate vissute da ospite d’onore. E amava bazzicare a Maranello la libreria di Luca Fornetti, dove certe sere nebbiose lo trovavi in mezzo a centinaia di volumi sulle corse, pronto a raccontarti una storia che nessuno aveva scritto ma lui aveva vissuto. Una delle sue ultime apparizioni pubbliche è stata lo scorso anno, tornato capo-meccanico per la Ferrari 312 T4 di Jonathan Giacobazzi, guidata prima da Arnoux a Erbé e pochi giorni dopo da Jacques Villeneuve a Fiorano, nel trentennale della scomparsa di Gilles. A Erbé aveva acceso la T4, a 85 anni, orgoglioso, buttando l’acceleratore a vita persa e mettendo i brividi a tutti. Quieto, felice, con gli occhi che facevano fatica a trattenere l’umido di una nostalgia immensa, come se tutti quei ricordi improvvisamente fossero divenuti da solidi e rombanti poeticamente liquidi e trasparenti, per vivere un ultimo hurrà, ricordando Gilles. Ciao, Giulio.



  


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