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Nata P230 in piena era wing car, il parto finale della BRM per i GP di F1, vive una vicenda ai confini della realtà, tra legal thriller, incidenti, restauri e un'inattesa ed entusiastica resurrezione. Questa la trama di un vero e proprio giallo da corsa.
5 feb 2020
Quella della Brm (sigla che sta per British Racing Motors) è storia meravigliosamente seria. Concepita nel 1947, proprio come la Ferrari, la Casa nasce da un consorzio d’industrie britanniche - in un momento in cui gli inglesi in monoposto non hanno ancora vinto praticamente niente -, allo scopo di suonarle in pista a tutti grazie a un fantomatico motore a 16 cilindri. A metà Anni ’50, il team viene rilevato dalle solidissime industrie Rubery Owen e nel 1962 Graham Hill su Brm diventa iridato F.1 (col motore 8 cilindri a V) e lo sarebbe pure due anni dopo se non fosse per una tamponata di Bandini Lorenzo, che regala il titolo al compagno ferrarista Surtees.
Ma la Brm è un mito che s’ostina a farsi tutta la F.1 in casa, proprio come la Ferrari, alternando solidità a coraggio telescopico e avveniristico, visto che che a metà Anni ’60 corre addirittura insieme alla Rover alla 24 Ore di Le Mans con un propulsore a turbina. E, non paga, poi realizza addirittura un complicatissimo ma affascinante motore 16 cilindri per la Lotus F.1, oltre a dare propulsori alla Matra endurance. Nei Gran Premi il declino è già realtà a inizio Anni ’70, anche se non mancano giorni di gloria, grazie a piloti come Jo Siffert, Pedro Rodriguez e Peter Gethin, quest’ultimo al top in volata nell’indimenticabile Gp d’Italia 1971. L’ultimo vero hurrà è comunque quello di Jean-Pierre Beltoise, a segno nel bagnatissimo Gp di Monaco 1972 al volante della Brm nella sponsorizzatissima livrea Marlboro, già simbolo della neomodernità danarosa nella F.1 che sarà.
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