500 Miglia di Indianapolis: fra tanti, Josef Newgarden

500 Miglia di Indianapolis: fra tanti, Josef Newgarden© @IndyCar

Avrebbe potuto essere la 500 Miglia di tanti, e invece alla fine è stata la 500 Miglia di Josef Newgarden, in una giornata fatta di intrecci, delusioni, errori e drammi sfiorati

30.05.2023 12:17

Avrebbe potuto essere la 500 Miglia di tanti e tante cose. Avrebbe potuto essere la 500 Miglia di Marcus Ericsson, ad un passo dal compiere un'impresa riuscita solamente a cinque piloti; poteva essere la 500 Miglia di Alex Palou, l'uomo più veloce nella storia di Indy per almeno un altro anno, se solo Rinus VeeKay non avesse commesso un errore da principiante; avrebbe potuto essere la 500 Miglia del dramma, se quella gomma fosse finita nel pubblico anziché su una Chevrolet bianca, ed avrebbe potuto essere la 500 Miglia della McLaren, davanti a lungo ma non quando contava. E così, è stata la 500 Miglia di Josef Newgarden, vittorioso in un finale inaspettato.

La prima di Josef, la beffa di Marcus

Josef Newgarden si era laureato campione IndyCar già due volte (2017 e 2019), ma non era mai riuscito a portare a casa il Borg-Warner Trophy ed a gustarsi il latte più dolce del mondo. Ce l'ha fatta in un'edizione strana, pazza per certi versi, con quelle tre bandiere rosse finali che hanno allungato a dismisura la narrazione di una 500 Miglia di Indianapolis che si sarebbe potuta concludere molto prima e con un esito diverso. Invece la trama si è sviluppata in modo imprevedibile, a cominciare dal grossolano errore di VeeKay, che ci ha privato di un Palou in formato campione dopo l'eccezionale pole position conquistata pochi giorni prima. Fin lì era stata una corsa lineare, azzardiamo pure tranquilla (per quanto tranquillo può essere andare a 370 orari), ma si sa che sul catino dell'Indiana le cose cambiano spesso ed in fretta, e non a caso è la corsa più veloce del mondo. Dopo 91 giri senza inciampi, con la prima caution per Sting Ray Robb, sono passati più di 50 giri per averne un'altra, stavolta per mano di Romain Grosjean. Ma è stato al giro 184 che la corsa è cambiata, con il botto di Rosenqvist colpito poi da Kirkwood. Il dio delle corse non si è girato dall'altra parte, ha fatto sì che la gomma volasse in un parcheggio e grazie al cielo Indianapolis ha potuto proseguire nella sua sceneggiatura, fatta di altre due bandiere rosse prima dell'ultimo giro, tutto d'un fiato. Era Ericsson contro Newgarden, ha vinto il secondo con l'amarezza del primo, che 21 anni dopo Helio Castroneves (biennio 2001-2002) stava per riuscire a compiere l'impresa di portare a casa due Indy consecutive. Non che non lo meritasse, Marcus: ma Indianapolis è questa, dolce o atroce a seconda che tu sia dietro di 0"0974 oppure davanti.

Un sogno che si realizza

Il bello della domenica di Newgarden è stato anche il dopo gara. Umanissimo, nostalgico e struggente. Il bagno di folla che si è regalato dopo aver lasciato la macchina in mezzo alla pista, è stato un voler rendere partecipi tutti quanti. Perché che tu sia un pilota, un meccanico, un ingegnere, un qualsiasi addetto ai lavori o anche solo uno spettatore, la Indy 500 unisce, tutti fanno parte di questo grande evento. E' quello che ha detto Josef, perché Indianapolis senza le migliaia di persone che fanno da sfondo non sarebbe la medesima cosa. Per Josef era anche un omaggio a sé stesso, al Josef che, da bambino, andava proprio sugli spalti: è partito dalle gradinate di Indianapolis e ci è tornato adesso, da vincitore. Abbracciando tutti, divertendosi con tutti: e chissà che la ciclicità della storia non abbia fatto anche stavolta il suo corso, permettendo ad un bambino di abbracciare il Newgarden di oggi prima di diventare il Newgarden di domani. 

E poi il ringraziamento alla moglie, Ashley, che con le cuffie in testa sembrava ancora più emozionata di lui. L'ha ringraziata, Josef, perché a volte ci si dimentica che per chi rientra negli affetti più stretti di un pilota le gare sono anche più difficili che per i piloti stessi. Quelle parole tinte di rosa sono state un tocco in più che non ha commosso solo i romantici, ma tutti gli appassionati di corse. E poi l'immancabile bacio ai mattoncini del traguardo, il tocco tra storia e tradizione, sempre stupendo in una giornata così.

Indy, la terra delle possibilità

Marcus Ericsson, che ha sperato in una bandiera gialla lunga fino alla bandiera a scacchi, dovrà farsene una ragione. Ma per lui che in F1 veniva ed a volte viene ancora ricordato "solo" come il primo compagno di squadra di Leclerc, è la certificazione di uno status di pilota di prim'ordine conquistato nei territori a Stelle e Strisce. E' il bello dell'America, la terra delle possibilità. Soprattutto le seconde, quelle che concede a chi, battuto un anno, ci vuole riprovare l'anno successivo. Sarà così per Palou, sarà così per una McLaren che, dopo aver condotto la gara per ben 76 giri, lascia l'Indiana con un 5° posto come miglior risultato. Quella possibilità che, invece, non avrà più il veterano Tony Kanaan: dopo averci corso 22 volte vincendo una (2013), TK ha lasciato con un 16° posto. Niente di che, come piazzamento, ma dopo aver fatto vedere, a 48 anni, il fegato che ci vuole per gare così, con un sorpasso sull'erba che è roba da mitologia. Buona vita, Tony. Per tutti gli altri, invece, arrivederci Indianapolis: all'anno prossimo.


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