Le Mans '66, la sfida romantica di James Mangold

Le Mans '66, la sfida romantica di James Mangold

Il film incentrato sull'epica sfida tra Ford e Ferrari, che animò la 24 Ore di Le Mans del 1966, è atteso nelle sale il 14 novembre. Il regista, James Mangold, ci ha concesso un'intervista in anteprima, nella quale ci ha raccontato curiosità e dettagli della pellicola 

28.10.2019 16:57

James Mangold è il regista del film di corse più atteso da sei anni a questa parte, ossia dall’avvento di “Rush”: ladies and gentlemen, stiamo parlando “Le Mans ’66-La grande sfida”, che in Italia uscirà il 14 novembre. 

Per certi versi potrebbe essere definito l’uomo racing del momento, perché la sua opera, realizzata con un budget di quasi cento milioni di dollari, si propone di scrivere e riscrivere una delle pagine più gloriose e entusiamanti nella storia delle corse, ovvero la lotta tra Ford e Ferrari divampata nella seconda metà degli Anni ’60. 

La possibilità di contare su un cast eccezionale, con Christian Bale e Matt Damon nel ruolo di frontmen, l’italianissimo Remo Girone nei nobili panni di Enzo Ferrari e la disponibilità stessa di mezzi tecnici, scenografici e narrativi d’assoluta eccellenza, rendono il film una grande impresa ricca di ambizioni, ma anche una primizia assoluta per gli appassionati del motorsport. Tanto da trasformare un’aperta chiacchierata in una giornata di sole, nel pieno di un’ottobrata romana, in un’appetitosa intervista in esclusiva, da vivere come warm-up per il lettore di Autosprint, in preparazione al momento della scoperta in sala del film. 

Cinquantaquattro anni, newyorkese, James Mangold, già regista del fortunato “Logan - The Wolverine”, è uno dei pochi cineasti di stampo classico ricchi di ritmo, eclettismo e versatilità narrativa, dalla sua opera prima, “Dolly’s Restaurant”, datata 1996, fino al pluripremiato “Quando l’amore brucia l’anima - Walk the Line”, che racconta la storia del mitico cantante Johnny Cash e del suo amore per June Carter Cash. E adesso tocca a “Le Mans ’66-La grande sfida”, tipico film di svolta, dopo il quale la sua carriera è a una biforcazione decisiva. A giudicare dalle due ore e mezzo di spettacolo, presumibilmente positiva assai.

Cosa l’ha affascinata davvero, nel girare questo film incentrato sulle competizioni per duri e puri?

«Proprio la possibilità di andare a ritroso ma non troppo, per tornare alle corse quando erano ancora, per così dire, incontaminate e non corrotte dal denaro, intimamente pericolose, con la gente a bordo tracciato. Il film è proprio incentrato su questa età dell’innocenza delle corse e, se vogliamo, anche sulla perdita di questa innocenza, perché la sfida che si vede in pista e i capitali in essa investiti stanno proprio a sottolineare che la civiltà delle corse dure e pure - da Le Mans ’66 in poi - sta lasciando spazio a qualcosa di ben diverso, ossia quello che sono diventare le competizioni oggi».

Ha mai assistito a un’edizione della 24 Ore di Le Mans dal vivo?

«No, mai. Ma sono stato per giorni ospite nella città di Le Mans e l’ho trovata bellissima. Così come trovo ancora stupenda la 24 Ore. Per una settimana all’anno Le Mans torna ad essere la capitale mondiale delle corse auto e questo è delizioso. Ma la Le Mans che serviva a me, quella della vittoria di Carroll Shelby da pilota prima, e della sfida tra Ferrari e Ford poi, non esiste più nella realtà: per ritrovarla e farla tornare in vita, ho dovuto ricostruirla da zero».

Qual è stata la vera scommessa che ha dovuto affrontare per “Le Mans ’66-La grande sfida”?

«Diciamo che è difficile fare un film d’azione pura che contenga anche una bella storia, importante e forte. In questo caso la grande scommessa era quella di realizzare un’opera che fosse “drama” e non solo action movie. Mi sento contento del risultato».

Lei non è un uomo di corse, vero? Non può definirsi un appassionato dichiarato, voglio dire.

«Amo le automobili, ma non sono certo il classico entusiasta del motorsport o un race fan. Nel vedere macchine che s’inseguono girando in tondo non ho mai provato sensazioni particolari. Però, partendo da ciò, sorgono un sacco di domande interessanti e proprio su queste ho lavorato, nel mio film. La zona magica in cui si entra salendo oltre un certo regime di giri del motore, il concetto di giro perfetto, le motivazioni che spingono uomini a correre e a rischiare. In realtà dietro il concetto di corsa si nascondono tanti nuclei esistenziali ricchi di richiamo e significato».

La sorpresa pura che si ha quando ci si confronta col film è che si parte pensando a una sfida Ferrari vs Ford, a una lotta di marche e marchi, al clangore dei metalli e allo sfrecciare dei bolidi, invece dopo due ore e mezzo si capisce che la sua è una vicenda tra uomini vissuta all’interno di una grande amicizia tra il team boss Carroll Shelby e il vecchio e irrisolto pilota Ken Miles. Lei finge di parlare di corse e in realtà tratta di vita e sentimenti, vero?

«È una domanda che contiene tanto, se non tutto. Mi verrebbe voglia di risponderle in italiano con una sola parola: “Sì”. Però mi piace anche andare oltre e allora le dico che ci sono più piani di lettura del film. La storia parte dal tentativo della Ford di acquistare la Ferrari e quindi, di fronte al rifiuto e all’interruzione delle trattative, il seguito vede la Ford impegnata a lanciare la sfida per battere la Ferrari stessa, a Le Mans. Ma andando avanti si scopre che l’unico modo per riuscirci è quello di affidarsi a Carroll Shelby e quindi a Ken Miles, che è l’uomo più anti-sistema che è possibile immaginare. E qui entriamo nel cuore del film, in cui Miles, interpretato da Christian Bale, diventa praticamente il centro di gravità di tutto il narrato».

Signor Mangold, lei può essere definito un regista a tutto campo, perché spazia dal racconto della vita del cantante Johnny Cash a Wolverine, ossia un super-eroe, fino a mettere al centro del suo racconto il vecchio pilota Ken Miles, il quale è il classico “reluctant hero”, l’eroe suo malgrado, ossia, in definitiva, un antieroe...

«Concordo col ragionamento. E le dico cosa unisce il tutto. La mia voglia di affrontare storie, racconti, plot e contesti il più differenti possibile e cercare di presentare una trama che possieda il dono della credibilità. Ecco, la mia sfida è quella di trovare un punto in comune tra Logan, personaggio di pura fantasia, cioè un mutante, il mitico Wolverine, e Ken Miles, padre di famiglia, ex soldato e un grande pilota esistito davvero. E la sola cosa che hanno in comune i due, dicevo, è il fatto che il mio racconto li renda perfettamente credibili, all’occhio dello spettatore».

Dando uno sguardo a volo d’angelo alla sua filmografia, non si può non notare la tendenza a cimentarsi ogni volta in soggetti completamente diversi, da Dolly’s Restaurant, che nel 1996 segna il suo debutto alla regia, passando per il seminale “Walk the line” ossia “Quando l’amore brucia l’anima”, che è del 2005, fino ai suoi due supereroistici “Wolverine-L’immortale” (2013) e “Logan-The Wolverine” (2017). Qual è la sottile linea rossa, il flusso intimamente coerente del suo approccio registico, all’interno del cammino in un quarto di secolo di regia, compreso il film su Le Mans ’66?

«Il senso di tutto per me è catturare momenti di pura umanità. Attimi di tenerezza. Riuscire a scavare, raccontare e riflettere sulla fragilità umana. Per umani o superumani che possano sembrare, i miei, in realtà, sono tutti film sulla gente, ossia “movie about people”».

E girare “Le Mans ’66-La Grande sfida” vuol dire anche fare un film “con” la gente. Centinaia e centinaia di comparse, 97,6 milioni di dollari di budget, gran ricorso alla computer-grafica, ma anche e soprattutto al talento puro per girare grandiose immagini d’insieme, quasi fossero battaglie campali napoleoniche, sul filo dei 300 orari...

«Sì, esatto. Ho vissuto appieno il gusto di avere full time una grande equipe di meccanici al mio servizio e con loro 23 piloti, tante macchine e la quasi interezza del set per ricostruire ogni cosa e qualsiasi location, da Le Mans, Maranello, alla prima factory di Shelby... Ecco, tutto questo è stato ricreato, perfettamente, da zero. In poche parole, è stato come avere in mano grandissimi giocattoli e alla fine la mia sensazione personale è stata quella del puro divertimento. Sì, posso dire di aver avuto il privilegio d’essermi divertito molto, girando questo film».

Se dovessi sintetizzare in cinque parole la trama di “Le Mans ’66-La grande sfida” direi: un uomo contro il Sistema. È d’accordo?

«Certo che sì. La radice è questa. Immersa in un terreno che vede e analizza il primo, vero, grande coinvolgimento del denaro nello sport, le differenti visioni dei vari approcci a questo, le difficoltà del capitalismo e le dinamiche che sovraintendono al funzionamento di una corporation... Sì, il film è un’analisi di tutto questo, pur avendo come punto focale la vicenda umana, sportiva e personale del pilota Ken Miles».

Lei con le major di Hollywood, ossia con le corporation, ci lavora. Signor Mangold, girando questo film, si è sentito più rappresentato dal ribelle Ken Miles o dal talentuoso adattabile Carroll Shelby?

«Le confesserò che io in realtà sono entrambi. Ho una parte passionale, istintuale e totalmente priva di compromessi. E in questa mi sento Ken Miles. Poi nell’approccio mi sforzo d’essere il più flessibile che posso, pronto a ragionare, a essere anche un salesman, come si dice, un buon venditore, quindi mi sforzo di essere anche Carroll Shelby».

Le voci dicono che girando “Le Mans ’66-La grande sfida” lei si sia talmente appassionato alla storia tanto da produrre una prima versione con un fluviale girato totale di ben tre ore e mezzo. Praticamente una mini-serie. Lo può confermare?

«È vero».

Uscire nelle sale con una versione di un’ora in meno, la fa sentire un po’ tagliato, ferito, ridimensionato, oppure no?

«Assolutamente no. Perché alla fine il lavoro di sintesi è fondamentale e permette di offrire al pubblico la parte più raffinata e coerente del girato. In altre parole, quella che funziona davvero». 

L’essenza pura del suo film?

«Una storia di uomini che costruiscono macchine con le mani e col loro cervello, vivendo il tutto volendo fornire eccellenza nella guida, ma mantendo intatti i valori dell’amicizia e della dignità, pur amando profondamente  ciò che fanno. Se scava nel mio film, alla fine troverà un nucleo maledettamente romantico. Io questo film lo considero un sforzo romantico».

Lei è grande esperto e cultore di cinema. Prima di approcciare questa sfida, quali erano i suoi titoli cult del motorsport? Meglio “Grand Prix” di John Frankenheimer o “Le Mans” di Lee Katzin, film in cui comunque gioca una parte fondamentale Steve McQueen, non solo come attore, ma anche in veste di produttore e play-maker?

«Il mio film preferito in assoluto sulle corse lo hanno visto in pochi e s’intitola “Heart like a Wheel-Il cuore come una ruota”, diretto da Jonathan Kaplan: narra la storia vera della vita della pilota di dragster Shirley “Cha Cha” Muldonwey. È bellissimo, è stato girato nel 1983 e ve lo consiglio. Vede, il problema dei grandi film sulle corse è puntualmente uno: offrono delle grandiose immagini di corsa ma poi, di converso, hanno una parte di “drama” ossia di trama pura, che lascia molto spesso a desiderare. È un po’ il guaio di “Grand Prix” e di “Le Mans” con McQueen, in cui le gare sono vissute in modo fantastico ma la drammatizzazione, il racconto che sta a contorno, risulta esile se non terribile, a tratti... In ogni caso, tra i due preferisco “Grand Prix”, che presenta momenti fantastici e adoro James Garner, il quale nel film recita superbamente».

E nel suo “Le Mans ’66-La grande sfida” qual è la scena di cui va più orgoglioso, quella che le piace di più?

«Quando Carroll Shelby a sorpresa imbarca il grande Henry Ford II a bordo della fiammante Gt40 e lo sottopone a un test drive spaventoso, in cui il magnate si rende finalmente conto dal vero di cosa significa stare nell’abitacolo di un bolide da corsa. Nelle smorfie terrorizzate e nel pianto disperato di Henry Ford II c’è la rivelazione della sua distanza dalla realtà, laddove tutto il suo potere e il suo denaro non gli consentono di capire e sperimentare il frutto della sua sfida. E solo la prova reale può ricondurlo alla verità. Ecco, credo che quella scena sia la metafora di quanto il potere stesso possa essere distante dalla realtà, pur padroneggiandola».

L’omaggio finale di Enzo Ferrari che saluta con rispetto Ken Miles togliendosi il cappello è un altro momento molto importante del film, anche se inventato di sana pianta, perché il pomeriggio di Le Mans ’66, in verità, il Drake se ne stava bello tranquillo a casa sua...

«Sì, giusto, ma quello è stato il mio modo per regalare un attimo di poesia allo spettatore e di dare giusto lustro nella storia a Ken Miles».

Matt Damon e Christian Bale nei panni di Shelby & Miles sono terribilmente credibili.

«Le dirò di più. Siamo di fronte a due amicizie parallele, sia sul set che nella vita, di entrambi gli attori. Hanno interagito stupendamente e posso dirle che lo stesso Christian si è calato alla grande nei panni di Ken Miles, parlando a lungo col figlio Peter e facendosi raccontare tanti aneddoti del padre».

Non ci sono personaggi totalmente buoni, in questo film, né totalmente cattivi.

«E non si trovano neanche nella realtà. Non mi sveglio la mattina dicendo “Okay, oggi sarò uno zucchero”, oppure “Ma sì, è il giorno in cui mi mostrerò cattivissimo”. No, non  funziona così, per ciascuno di noi. Proviamo semplicemente tutti a vivere la nostra vita e a fare le nostre scelte. E a volte ci troviamo di fronte qualcuno che ci crea ostacoli, mentre altri ci aiutano. Lei ha ragione quando dice che non ci sono né buoni né cattivi e io aggiungo che sono tutti warriors, dei guerrieri, i personaggi del film».

Ferrari e Ford come potrebbero prendere quest’opera? Qual è la sua sensazione?

«Posso dirle che all’inizio, quando si è diffusa la notizia che stavo girando un film su di loro, ho percepito un certo nervosismo. Ma in realtà credo di trattare bene tutti, di raccontare la trama che volevo senza creare problemi a nessuno. E alla fine vedrà che entrambe le Case avranno solo benefici di immagine, da questa storia».

Il suo collega Quentin Tarantino in “C’era una volta a Hollywood” propone in primo piano un outsider, lo stuntman Cliff Booth (Brad Pitt), che sbarca il lunario aiutando la star in declino Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), Todd Philips in “Joker” usa Joaquin Phoenix come emarginato in cerca di folle riscatto, lei fa definire Ken Miles un beatnik, uno fuori dal sistema. È forse questo un bel momento per i loser, cioè i perdenti, e le loro possibili redenzioni o sublimazioni, raccontate dalla major hollywoodiane?

«No, non è così. Le major non producono né lavorano di concerto. La sua è un’analisi suggestiva, con buoni argomenti, ma si tratta di pure coincidenze, mi creda. Semmai si tratta di realizzare film interessanti, che propongano personaggi appetibili a un pubblico il più ampio possibile, dai teenager agli adulti. Da noi il vero problema è che un tredicenne guarda da venti a trenta film all’anno, mentre un adulto va al cinema non più di tre volte in dodici mesi. Le major vogliono solo vendere il loro prodotto il più possibile a più gente possibile. Così stanno cercando di piazzare positivamente dei titoli non solo per tredicenni. È in questa ottica che va visto il film che ho girato, il quale può proporre molte sequenze spettacolari e adrenaliniche, pur all’interno di un testo ricco di pathos. Non solo divertimento, quindi, ma anche sentimenti e spessore umano».

Infine, secondo lei, Ken Miles, ovvero Christian Bale, il vero protagonista del film, è un vincente o un perdente? Oppure lo considera, più centratamente, perdente in gara e vincente nella vita?

«Questa è una domanda difficile. Perché Ken Miles è un uomo totalmente alieno a compromessi. E la sola volta in vita sua in cui accetta la proposta di tirare su l’acceleratore, negli ultimi giri della 24 Ore di Le Mans 1966, paga un prezzo importante, perché la sua vittoria meritatissima sarà aggredita addirittura dalle pieghe del regolamento... Però possiamo anche leggere la vicenda in tutt’altro modo, ponendo attenzione su quella che definisco “the bigger picture”, ossia l’immagine più complessiva della faccenda. Guardi, le dico una cosa: Ken Miles di fronte a sé trova sfide quasi impossibili e alla fin fine le vince tutte. Partecipa alla Seconda Guerra Mondiale e sopravvive vittorioso, riuscendo a condurre un carro armato dalla Normandia a Berlino. Se ne va, migra dall’Inghilterra all’America e riesce a rifarsi una vita, si forma una stupenda famiglia, si dimostra un padre delizioso e trova il modo di esprimersi nelle corse, applicando il suo talento tecnico e di guida, portandolo all’eccellenza assoluta ma restando se stesso. Questi sono i fatti. Il resto non dipende da lui. Vede...».

Sì, continui pure...

«... No... dicevo, pensi all’insieme delle storie dei grandi uomini, di oggi e di ieri. Molto spesso ci troviamo di fronte a immense epopee di personaggi i quali sappiamo benissimo che umanamente sono nient’altro che dei gran pezzi di merda. Ecco, guardando alla storia di Ken Miles sia pilota che personaggio, e, in particolare, per quanto mi riguarda, raccontandola in questo film, ho l’assoluta e orgogliosa consapevolezza di aver reso nota - potenzialmente a chiunque - la storia vera, coraggiosa e toccante di una grandissima persona e di un uomo moralmente, intimamente e spiritualmente bellissimo»


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