La festa d'ognisSainz!

La festa d'ognisSainz!

Papà Carlos, a 30 anni dal primo mondiale rally vinto, guarda indietro e narra le gesta di una carriera inimitabile. Nel contempo racconta suo figlio, come pilota e dal punto di vista personale, vedendolo bene come uomo votato alla squadra nella Ferrari 2021

Andrea Cordovani

01.06.2020 ( Aggiornata il 01.06.2020 12:43 )

"Il sacro fuoco delle corse brucia ancora dentro di me. Ho la stessa passione di quando da ragazzino sognavo una vita da pilota". Aveva 12 anni, Carlos Sainz quando sentì scoccare dentro di sé la scintilla. "Il mio primo rally dal vivo l’ho seguito nel 1974: il Rally RACE, uno dei più importanti, la corsa del Real Automovil Espana. Mi portò mia sorella Carmen, allora fidanzata con Juan Carlos Onoro. Correva con una Simca".

Sciabolate di fari a violentare l’intimità della notte. Il rombo del motore che si trasforma in pelle d’oca. "Quelle sensazioni me le porto ancora addosso anche se so-no passati tanti anni...».

Già, sono passati tanti anni e questo spagnolo classe 1962 si è trasformato in una vera leggenda del motorsport. È stato il primo capace di vincere indistintamente su ogni tipo di fondo e in ogni genere di competizione, introducendo così la figura del rallista completo; dal verglas e neve del Montecarlo allo sterrato ultra veloce della Finlandia, dall’asfalto di quel carosello di curve che è il Tour de Corse al fango delle buie foreste dell’Inghilterra, del Galles e della Scozia; e perfino sulla terra rossa e sulle rocce laviche del Safari, in Kenya.

Esattamente trenta anni fa conquistava il primo titolo iridato della carriera. Il 1990 è stato davvero l’“annus mirabilis” di Sainz con il primato in 135 prove speciali sulle 361 disputate e la parata di affermazioni in Grecia – la prima in carriera – in Nuova Zelanda, in Finlandia e in Gran Bretagna; in quel RAC che ancora attraversava l’Inghilterra e il Galles e sconfinava in Scozia, con le micidiali tappe nella buia Kielder Forest; “Killer Kielder” come la chiamavano nel giro dei rally, l’assassina Kielder. E del primo titolo mondiale. Che dedicò a Sua Maestà Juan Carlos I, grande sportivo e grande spagnolo.

Sainz divenne il simbolo della nuova Spagna che esportava la “movida”, scopriva l’euforia per la borsa, faceva conoscere l’architettura d’avanguardia. Superò in popolarità personaggi quale il golfista d’oro Severiano Ballesteros.

Si è ritagliato uno spazio nella storia del suo Paese diventando il primo spagnolo campeon mundial nell’automo- bilismo.

Il primo anche a dichiarare pubblicamente, in inglese, francese e italiano, ciò che pensava – perché il carisma e la forte personalità glielo hanno permesso – infischiandosene così delle raccomandazioni dei portavoce delle Case...

Trenta anni dopo la sua leggenda non si è assolutamente scalfita. A gennaio ha vinto la terza Dakar della carriera. È un’icona del motorsport, Sainz senior, orgoglioso della sua vita da corsa e adesso anche di un figlio che dal prossimo anno guiderà la Ferrari in F.1.

"Carlos è ultracompetitivo, ma sono sicuro che aiuterà la Ferrari. Questo lo posso dire: lui è un giocatore di squadra. Comunque sia sono convinto di una cosa: è sempre meglio parlare in pista con i risultati. E di sicuro parlare in pista è più difficile, rispetto ad aprire la bocca e fare affermazioni. Per Carlos niente è stato facile, ma lui si è sempre messo lì a lottare, senza tirarsi indietro e sono certo che coglierà al volo tutte le opportunità. Ma non voglio dire di più, anche perché io seguo la carriera di mio figlio da spettatore. Solo spettatore".

Però chi la conosce da una vita non può far a meno di notare che Carlos ha preso da lei diversi aspetti del carattere...
"Posso dire che quando avevo la stessa età di Carlos io parlavo meno di lui. Per me era più difficile comunicare...".

La sua carriera nel mondo dei rally è stata straordinaria. Quando nel 2004 lasciò il Mondiale lei era il pilota più vincente. Certe sue prestazioni sono entrate direttamente nella leggenda..

"Sì, però attenzione. Ho avuto anche dei momenti difficili, quando all’inizio della mia carriera la Lancia decise di prendere Didier Auriol invece di me. Mi fece davvero male al cuore perdere quella opportu- nità, ma la vita, sai, si porta dietro tante storie. Dopo aver saputo del passaggio del francese alla Delta sia- mo andati a correre il Rally di Sanremo e nelle prime due giornate con la Sierra ero al comando in mezzo alla nebbia, in condizioni davvero al limite. Quella prestazione si rivelò un gran messaggio per il capo della Toyota Ove Andersson, che si convinse di dar- mi un’opportunità. Mi prese in squadra e da lì è cominciata la mia parabola di rallista. E proprio gra- zie a quella prestazione in Italia è cominciato tutto". 

Di lei colpivano certe scelte strategiche e la preparazione minuziosa per ogni singolo evento del Mondiale Rally che era composto all’epoca da ga- re definite per specialisti. Carlos Sainz, invece, è stato il primo rallista moderno capace di vince- re ovunque...

"Sì, è vero. Io prendevo la mia squadra in mano e mi preparavo al meglio, per essere vincente ovunque si andasse a correre. Credo anche che nessun altro rallista abbia fatto il Grande Slam, ovvero sia stato capace di vincere a Montecarlo, Safari, Corsica, 1000 Laghi e RAC, rally particolari, come si diceva una volta, da specialisti. Questa è una particolarità dellamia carriera che oltre a essere rimasta unica mi rende davvero orgoglioso".

La sua impresa nel 1000 Laghi del 1990, primo latino a vincere nella grande giostra di Jyvaskyla da sempre fortino inviolabile per i piloti non nordici, ha fatto riscrivere la storia della specialità...

"Quella, molto probabilmente, è stata la gara più bella della mia vita. Per spiegare quanto possa essere particolare quella gara, basta ricordare che ad esempio, piloti immensi come Walter Rohrl non la hanno corsa neanche una volta talmente è unica nel suo genere. Ricordo che quel rally lo preparai davvero bene. Le ricognizioni erano libere, anche se da effettuarsi con macchine stradali. Il rally di Finlandia mi è piaciuto fin dalla prima volta che l’ho disputato. È una gara che ti deve piacere, perché ci sono stati tanti piloti che l’hanno corso, anche campionissimi, che su quelle speciali così diverse dalle altre velocissime e piene di salti incredibili, facevano fatica a trovare il feeling giusto a livello di velocità e nell’impostazione dei salti che dovevi compiere senza sosta a un ritmo sempre costante. Il 1000 Laghi è incredibile. Il 1000 Laghi è il rally!".

Rivisto con gli occhi di uno che ha lasciato tracce fenomenali nella storia della specialità: com’è cambiato il Mondiale Rally rispetto alle sue stagioni?

"Ho avuto la fortuna di correre in un campionato dove le gare erano diverse da quelle attuali: si correva spesso di notte, le assistenze venivano effettuate ai bordi delle strade, tantissimi chilometri di prove speciali, la specialità aveva ancora una grande componente di avventura. Al contempo ho corso anche negli anni della grande trasformazione dei rally, con i percorsi a margherita, chilometraggi ridotti, niente più notte, parchi assistenza. Insomma posso dare un giudizio completo. La trasformazione dei rally è avvenuta per tappe, piano piano ma al tempo stesso non ha snaturato il dna della specialità. I rally continuano, fortunatamente, a essere gli stessi anche se c’è tanta differenza dal tempo in cui ho iniziato a frequentare il Mondiale Rally nel 1987 e quando mi sono ritirato dalla serie iridata nel 2004 con gare che sostanzialmente sono strutturate come quelle che vediamo adesso".

Nella sua carriera ha vinto due volte il titolo mondiale e in altre quattro occasione ha chiuso al 2° posto. Tra questi piazzamenti ce n’è uno che brucia ancora. Se ripensa a quando perse il Mondiale Rally 1998 a soli trecento metri dalla fine in una maledetta ultima speciale del campionato al Rac di Gran Bretagna che cosa prova? Poteva essere il suo terzo titolo iridato ma sfumò tutto a un amen dalla fine...

"Perdere un mondiale come quello è ovvio che ti lascia dentro qualcosa. A me sarebbe stato sufficiente arrivare al traguardo per battere Tommi Makinen. Ero stato protagonista di un’uscita di strada nelle battute iniziali e a quel punto avevo badato solo ad arrivare in fondo, visto che mi sarebbe bastato arrivare tra i primi cinque per vincere il campionato. Ero in quarta posizione con tanto distacco dal leader e a quel punto abbiamo fatto una corsa passeggiando con il solo obiettivo che passassero le speciali senza guai, in attesa dell’arrivo. Sembrava fatta, ma poi a trecento metri dalla fine dell’ultima speciale si è rotto il motore della Corolla Wrc. Certo quello è un verdetto difficile da accettare, pensa se fosse stata quella la gara che poteva darmi il primo titolo mondiale. Ma io ne avevo già vinti due di campionati del mondo e a quel punto ho messo tutto sul piatto della bilancia. Inizi a pensare che nello sport sono cose che possono succedere e a quel punto guardi anche alla tua vita. Lo dico, io sono stato fortunato per quello che sono riuscito a fare. Per me quella sconfitta è stata dura da accettare, ma ho cercato di girare la pagina. Io cercavo di non pensarci ma era più la gente che ogni volta mi ricordava quel motore ko e il mio sogno che andava in fumo e tutti a dirmi che ero sfortunato. E invece non è così. Mi considero uno dei piloti più fortunati, perché sono riuscito a coronare la mia passione, sono riuscito a vincere, ho una bella famiglia, va tutto bene: insomma non mi considero uno sfortunato. Ho vinto due titoli e per quattro volte sono giunto secondo nel Mondiale Rally. Certo i titoli potevano essere cinque. Ma va bene così. Te lo dico onestamente: il riconoscimento che ho avuto io è sempre stato immenso. E per questo devo ringraziare tutta la gente. Mi ha fatto un gran piacere il premio che mi hanno consegnato come rallista più forte della storia. Mi sono sempre sentito bene con me stesso e in mezzo alla gente che riconosce- va il mio valore".

E della sua nuova vita agonistica alla Dakar che cosa dice? A 57 anni ha vinto per la terza volta il Raid-icona, dimostrando di possedere ancora quella fame bulimica per le vittorie che ha con- traddistinto la sua carriera...

(Ride) "È tutto vero. Ma questa fame nasce prima di tutto per la mia passione per le gare. Io mi diverto come quando ho cominciato a correre i miei primi rally, sono animato dalla stessa passione, quella che è scattata in me nel 1974, quando a 12 anni ho assistito al mio primo rally dal vivo, come dicevo prima, il RACE nel quale mi accompagnò mia sorella Carmen all’epoca fidanzata di Onoro che correva con una Simca R2. Ho ancora quel sacro fuoco che brucia dentro di me. Quello è rimasto. Non è cambiato di una virgola. Io morirò pilota. E per questo ti dico che la spinta per correre alla Dakar e inseguire la vittoria è sempre la stessa. Ovviamente non sono uno stupido: il tempo passa e arriverà il momento di dire basta e magari non sarò più professionista e passerò a fare delle gare storiche amatoriali. Ma fino a quando corri per una Casa costruttrice tu hai la responsabilità di dare e fare il massimo per vincere. Io corro alla Dakar perché penso che posso vincere, altrimenti ti giuro che non mi vedresti alla partenza".

Quanto tempo serve per preparare e vincere una Dakar?

"Ci sono due aspetti: uno fisico e l’altro tecnico. L’ho detto anche a Fernando Alonso quando ha deciso di correrla. Sull’aspetto fisico influisce ovviamente l’età. Più sei in là con gli anni e più ti devi preparare a livello fisico seguito da una struttura professionale. Oggi la medicina dello sport ha fatto passi da gigante e io ho la fortuna di essere seguito da un pool di Madrid davvero al top. Mi alleno correttamente e mi preparo bene. Poi interviene l’aspetto meccanico perché devi capire bene l’esatta conformazione delle prove per far rendere la vettura al massimo livello. Servono grandi meccanici e ingegneri perché lì non si può sbagliare: quella è una gara che si corre una volta all’anno e non hai possibilità di errore. Quindi devi arrivare ad avere a disposizione una vettura che non si ferma mai ma anche polivalente, perché deve dare il massimo in qualsiasi condizione. Nella nuova sede in Arabia Saudita ci sono solo deserto e dune, quando eravamo in Sudamerica invece si correva, oltre che su dune e sabbia, anche su strade, di- ciamo così, più normali. Insomma devi avere la macchina più polivalente e veloce possibile. Ma questa è una regola che va bene anche per altre specialità del motorsport".

Di lei ha sempre colpito la grande attenzione per la tecnica.

"Io non sono ingegnere e neanche voglio esserlo. Io sono un pilota che quando si mette in macchina cerca sempre la soluzione per farla rendere al meglio. Voglio sempre avere un buon feeling e buone sensazioni perché così vado più veloce. Con l’esperienza che ho acquisito sia nel Mondiale Rally che alla Dakar vedo subito che cosa manca e che cosa si deve fare per prendere la strada giusta. E in questo ti aiutano gli ingegneri: tu dai degli imput. Quando parlano di me e dicono che sono quasi un ingegnere rispondo sempre di no, io li aiuto solo ad arrivare tutti insieme al traguardo finale e in questo anche i meccanici sono fondamentali. È un lavoro di team ma io nella mia testa ho l’idea chiara di quello che voglio avere. E poi ci sono i piccoli dettagli che messi tutti assieme fanno la differenza".

Nella sua carriera ha cambiato tantissimi team: c’è un motivo particolare?

"Ho corso per così tanti anni che è stata una cosa inevitabile. Ma ogni squadra che ho lasciato non mi ha mai visto sbattere la porta, mai polemiche. Ho sempre avuto ottimi rapporti tanto che alla Toyota e alla Ford sono tornato dopo aver chiuso il rapporto. E questa è la cosa che mi fa più piacere di tutto. Il rispetto della gente è per me una delle cose più importanti".

Ha conosciuto tutti i più grandi: Juan Manuel Fangio, Ayrton Senna, Michael Schumacher... Come si pongono le leggende del motorsport quando si incontrano?

«Tutti quanti siamo accomunati da un’unica cosa: la passione. È questo accomuna perché abbiamo tut- ti la stessa malattia per il motorsport. Ovviamente conoscere piloti come Fangio, Senna, Schumacher è stato fantastico: tutti grandissimi numero uno. Co- me grandissima ammirazione ho avuto per rallisti come Blomqvist, Vatanen, Rohrl».

Suo figlio Carlos è nato nel 1994 mentre lei disputava il Mondiale Rally con la Subaru. Quando ha capito che anche in lui si è acceso il fuoco della passione?

"Lui ha iniziato per gioco a salire sul kart in modo del tutto naturale, ma io non gli ho mai voluto mettere pressione. Ho sempre pensato a una cosa: che si diverta. Poi intorno ai 9-10 anni ha iniziato a fare un po’ più seriamente. Lui voleva fare quello e secondo me aveva pure il talento per farlo".

E le sue figlie Bianca e Ana? Non hanno la vostra stessa passione?

"Loro sono semplici tifose ma non seguono molto le corse. Come ti puoi immaginare a casa mia il motorsport è sempre stato argomento importante, loro hanno sempre respirato quella atmosfera ma non sono così appassionate come me e Carlos. Sono interessate a livello normale, niente di speciale".

A guardare il percorso di Carlos in Formula Uno balza agli occhi la coincidenza che è stato perfettamente in fotocopia, a livello di team per i quali ha corso, a quello di Fernando Alonso: è partito da Faenza (Fernando con Minardi, Carlos Toro Rosso) è proseguito con la Renault, poi McLaren e infine Ferrari. È quantomeno curioso...

"È una coincidenza. Incredibile. Ma è una coincidenza. È destino. Non c’è stato nessun piano prestabilito. Però concordo anche io. È veramente curioso».

Da quando corre alla Dakar a ogni fine tappa Carlos vuole un brefing dettagliato di come è andata. È vero?

"Certo che si. Ogni sera per venti minuti, stanco per la giornata di gara, devo ascoltare lui al telefono. Però non succede mai il contrario. Quando vado a qualche Gp lui liquida tutto in 2-3 secondi. Sono 2/3 secondi contro venti minuti: non mi sembra tanto giusto!".

Qual è la differenza più grande che l’ha colpita della F.1 arrivando dal Mondiale Rally?

"La F.1 l’ho sempre seguita quando il Gp di Spagna al quale andavo anche prima di sposarmi, è sempre stato un appuntamento fisso. Con l’arrivo di Alonso nel Circus il mio interesse è cresciuto vista la nostra amicizia. Mi piace la F.1, ma ovviamente il rally è la mia vita. E comunque seguo tutto il motorsport anche la MotoGP. Sono un appassionato".

Perché non hai mai corso in pista?

"L’ho fatto solo all’inizio della mia carriera e tra l’altro ho anche vinto la Coppa Renault in Spagna. Ma da noi il rally era molto più popolare anche se conservo ancora un grandissimo ricordo del circuito di Jarama. Un altro mondo".

Quanto è difficile essere papà di un pilota? Pensoa lei ma penso anche ad Harri Rovanpera e a suo figlio Kalle, davvero un baby-fenomeno...

"Kalle è incredibile. Veramente. È giovanissimo e penso che batterà tutti i record anche quelli che adesso paiono impossibili da superare. Ricordo ancora quando il papà gli faceva i video e lui a 8 anni faceva delle cose al volante di una macchina da corsa davvero eccezionali. Fantastico quello che faceva con un volante tra le mani. Per il resto se parliamo di Carlos io resto sempre al mio posto. Lui fa la sua strada e a un certo punto anche un padre deve fare un passo indietro e deve trasformarsi in una cosa soltanto: fare lo spettatore".

Qual è stata la sua gara più bella? E quale ritiene sia stata quella di Carlos?

"La mia senza dubbio la vittoria al 1000 Laghi del 1990. Per quanto riguarda quella di Carlos non saprei dire. Carlos ha nella testa ben chiaro cosa deve fare. Per prima cosa aiutare la Ferrari a vincere. Ma ci sarà tempo per scoprirlo. Io di certe cose per abitudine non parlo. Ti dico solo che quello che ha fatto l’anno scorso alla McLaren nessuno l’avreb- be pensato. Gli è bastato avere la fiducia del team per crescere: non dimentichiamo che è ancora giovane. Se tu mi chiedi quando la mia carriera ha avuto uno step deciso te lo dico: avevo 26 anni. In quel mio step rivedo anche quello che l’anno scorso ha fatto lui. Ma i ragazzi di oggi sono molto più maturi di quelli delle nostre generazioni".

Generazioni di nuovi fenomeni. Come Carlos Sainz senior. Una leggenda.


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