Magari Binotto desse ragione a Binotto

Magari Binotto desse ragione a Binotto

Sapete qual è la sola preoccupazione che suscita la minaccia di una Ferrari delusa dalla F1 e pronta a rivolgersi anche ad altre categorie? Quella che resti solo una minaccia e che si tratti ancora una volta del solito deterrente tattico-dissuasivo verso i poteri forti dell'automobilismo da corsa

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27.04.2020 15:03

Giocoforza quest’anno le corse e la F.1 non si nutrono di rombi, sorpassi e DRS, ma solo di affondi dialettici e staccate argomentative. Così, manco fosse la memorabile infilzata di Hakkinen a Spa 2000 a Les Combes su Schumi e Zonta, per ora non resta che gustarsi l’intervista rilasciata da Mattia Binotto all’autorevole “The Guardian”. Tanto, a quanto sembra, basta che una testata non sia italiana e già fa fede, se poi è britannica, wow, profuma solo d’incenso e verità.

Cosa ha detto Mattia Binotto

Boh, sarà. Ma meglio non divagare, anche se ne avrei, oh se ne avrei. L’ottimo Binotto, dicevo, tramite The Guardian interviene papale papale sulla questione del futuro budget cap e allora anzitutto riassumo in pillole i termini della faccenda, per informazione e diletto di chi si è messo in ascolto solo ora.

L’ultima proposta discussa di recente in teleconferenza da FIA, F.1 e team principal ha lasciato sul campo l’idea di un ulteriore taglio a 145 milioni di dollari nel 2021, 130 milioni dal 2022, soglie rispetto a un punto, ufficioso, di 150 milioni di dollari sul quale potrebbe esserci la convergenza dei top team, i più forti nonchè danarosi, ovvero Mercedes, Ferrari e Red Bull, mentre l’altra parte, i risparmiatori a tutti i costi (toh, buffa, sta definizione), comprendono McLaren & compagnia cantante e residua.

Ecco, di fronte a uno scenario del genere, Mattia Binotto ci va giù pari e dice bello chiaro: "La soglia dei 145 milioni di dollari è già una richiesta nuova e impegnativa rispetto a quanto era stato definito lo scorso giugno. Non può essere ottenuta senza ulteriori, significativi sacrifici, soprattutto in termini di risorse umane. Se dovesse abbassarsi ulteriormente, non vorremmo essere messi nella posizione di dover guardare ad altre opzioni per esprimere il nostro dna racing, non si discute di un’uscita dalla F.1, piuttosto di affiancare altri impegni alla stessa F.1, sbandierando il “dna racing” che una categoria depotenziata da un budget cap ulteriormente ridotto potrebbe comportare".

Parole già sentite

Fantastico. Be’, sapete l’unica cosa che mi preoccupa, di fronte a una dichiarazione del genere? È che si tratti del solito argomento minaccioso storicamente brandito dagli uomini del Cavallino Rampante - dai tempi di Enzo Ferrari fino a oggi - quando intendono ammorbidire, spaventare e ricondurre le autorità sportive della F.1 a più miti consigli.

Dagli Anni ’50 al presente, tutte le volte in cui alla Ferrari non va giù qualcosa circa il futuro regolamentare, arriva l’intimazione a piantarsela, altrimenti la Casa di Maranello potrebbe guardare altrove rispetto alla F.1, solo per questo lasciandola vedova, orbata e inconsolabile, oltre che decisamente più povera. E qui, scuserete, ma il flusso della coscienza proustiano mi riconduce a un memorabile pomeriggio sull’appenino reggiano, di preciso a Castelnuovo ne’ Monti, quando mia nonna mi portò da un autorevo le biciclettaro del luogo per acquistarmi una Bottecchia da corsa.

Trovata la bici e sgranati gli occhi da quant’era bella, comincia una sanguinosa trattativa in cui il biciclettaro chiede una cifra e mia nonna gliene spara un’altra che neanche gli rassomiglia, mentre io guardo la bici estasiato e un po’ in ansia. ’Sta cosa va avanti per un po’, fino a che nonna saluta il tale, mi prende per mano e mi porta fuori dal negozio.

Una delle più grandi delusioni istantanee della mia vita. La Bottecchia giace oltre la vetrina, già così lontana nonchè impossibile e ormai per sempre irraggiungibile.

Con le lacrime agli occhi, dico a nonna: "Ma perché? Perché ce ne siamo andati? Mi piaceva da morire, la bici". E lei "Taci, che ancora non sei nato. Conta fino a dieci!" Uno, due tre, insomma, non arrivo a quattro, che il tale esce dal negozio tutto felice, andando a stringere la mano a nonna, la quale in un attimo ottiene il suo prezzo e io la mia Bottecchia, in uno dei pomeriggi più memorabili della mia bimbitudine.

Al ritorno, nonna fu chiara: "Vedi, un giorno capirai: è dalla fine dell’800 che dura questo duello. Per vincerlo, la massaia deve uscir di bottega, finger d’andarsene e costringere il commerciante a correrle dietro. È tutta lì, la questione". Si va be’, ma se questo non fosse uscito?! "Tranquillo - chiosò nonna - escono sempre".

Finirà con Binotto nelle improbabili vesti di mia nonna e le autorità sportive ridotte a più miti consigli, stando alla logica plurisecolare di queste dinamiche?  Probabile, ma okay, al di là di questo, vorrei cogliere l’occasione per dire che se i bottegai dovessero restare o meno pervicacemente e antipaticamente serrati nel negozio, sarebbe ora che la Ferrari guardasse davvero in modo diverso al suo impegno nelle corse.

Oltre la Formula 1

Perché il DNA del Cavallino e anche la sua storia dicono, spiegano e raccontano chiaro che il mito Ferrari non deriva dalla F.1 ma da ben altro.

Enzo Ferrari si mette a fare il costruttore usando il suo cognome per marchio a 49 anni d’età e a 60 è già inarrivabile leggenda non certo per i mondiali vinti da Ascari, Fangio e Hawthorn in F.1, quanto perche? in pochissimi anni dal debutto in gara la Casa ha già gioisamente maramaldeggiato nelle corse più belle e importanti del mondo.

Con auto sognate da chiunque, dai conti russi in esilio fino ai bimbi messicani passando per le ereditiere di Palm Beach, e grazie a quelle imprese arriva una mitragliata santificante di titoli mondiali nel World Sports Car Championship istituito nel 1953, quindi tre anni più tardi della F.1. Ecco, dal 1953 al 1961 la Ferrari vince tutto, ovvero sette mondiali, a parte due stagioni in cui s’affermano Aston Martin e Mercedes, costruendo una leggenda solo aritmeticamente avvicinata da altri, ma epicamente mai più sfiorata da nessuno.

Tanto che quando poco dopo Henry Ford II vuol rifare il maquillage alla sua industria, cerca di acquistare la Rossa e poi di batterla in pista sul terreno vero, duro e puro in cui è nato e consolidato il suo culto: non certo in F.1, ma alla 24 Ore di Le Mans - vinta la prima volta già nel 1949, un anno dopo del primo shot alla 1000 Miglia con Biondetti - e a cascata nel- le altre classicissime farcite da titoli iridati a pioggia

Tutto ’sto pistolotto per dire che Binotto, volendo o non volendo, ha detto cosa buona e giusta, indipendentemente dalla trattativa in corso.

È dal 1974 che il Cavallino Rampante di fatto pensa solo alla F.1. All’inizio perché non c’erano le forze per fare altro con la pretesa di vincere, e va bene. Ma poi, in piena F.1 ricchissima e premiante, nel bel mezzo dell’era Ecclestone, vedi gli Anni ’90, la Ferrari si lega a doppia mandata ai Gran Premi perché è Bernie Ecclestone a chiederglielo espressamente, strappando a Montezemolo l’impegno di una Rossa solo ed esclusivamente dedicata per sempre a fare la primadonna nel mondiale della massima formula. E giammai pronta a tradire in chiave Indy o Le Mans, ovvero, peggio ancora, Mondiale Sport (che dopo il 1992 manco esiste piu?), ovvero le sole realistiche alternative praticabili nei secoli dei secoli, amen. La Ferrari inchiodata alla F.1.

È questa la ragione per cui nella seconda metà degli Anni ’90 Montezemolo - in buon accordo con Ecclestone per la F.1 -, vedeva la Ferrari 333 Sp barchetta come fumo negli occhi, anzi, un vero intralcio peraltro reso possibile solo dalla grande e sincera passione di Piero Ferrari stimolato nel programma clienti da un gentleman driver di primo livello quale fu il compianto “Momo” Moretti.

L’avventura alternativa della Ferrari prototipi nell’Imsa e poi anche in Europa fu intensa, apprezzata, contrassegnata da bei momenti e trionfi - su tutti prima a Sebring e quindi a Daytona - e importante, ma mai troppo appoggiata dalla Casa madre. Tanto che se è andata avanti e bene, va detto tecnicamente e tecnologicamente grazie a Michelotto. E in ogni caso da allora mai più l’idea di un nuovo prototipo Ferrari ha mai toccato palla, a Maranello, perché la Rossa solo alla F.1 poteva e doveva pensare e anelare. È questo il cardine del principio secondo e grazie al quale la Rossa vanta un bonus annuale economico fenomenale, peraltro messo ben presto in dubbio e a repentaglio dai new promoter di Liberty Media.

Categorie possibili per il Cavallino

Ebbene, forse, al di là della questione del budget cap e dei bonus Fom o del premio prestigio & antica militanza, sarebbe questo l’incantesimo da sciogliere: la Ferrari, in altre parole, geneticamente non è fatta per essere fedele in esclusiva alla F.1, ma rappresenta una maliarda mutevole, uno spirito affascinante e libero, che in un battito di ciglia flessuose, come ogni femmina fatale, può continuare a ballare ma cambiando cavaliere.

In altre, poche e chiare parole, i tempi sono maturi perché la Ferrari non pensi più alla F.1 quale unico terreno di sfida e cimento. Primo, perché ha know-how, strutture e possibilità per fare e animare tanto altro, rispetto ai Gran Premi. I miracoli realizzati da Coletta & C. in GT in questi anni sono un argomento consistente come un macigno, in tal senso. E poi, secondo, in subordine, politicamente, il Wec è a uno stato tale di vuoto, confusione e crisi, dopo il fallimento Hypercar e l’apertura ai prototipi all’americana ibridati, che l’idea di poter avere una Ferrari in lizza per l’assoluto - in modi, forme e peculiarità da definire - farebbe far follie ai gestori, pronti a garantire condizioni d’oro.

Punto terzo, ci sono ragioni cardiaco-culturali che mi spingono a dire, scrivere e spingere per questo. Perche?, qui lo dico e non lo nego, è dal 1965 che la Ferrari non vince la 24 Ore di Le Mans, con Gregory-Rindt e la Nart. In altre parole, da quando Henry Ford II volle cominciare a batterla.

Ecco, ha stufato, questa faccenda. La Ferrari può e deve far qualcosa per onorare la sua storia, perché è da fine 1973 che snobba la Sarthe e il mondiale prototipi, dopo che, proprio in quell’anno la 312 PB di Merzario fece sognare in fuga nella 24 Ore di Le Mans fino a che una perdita di benzina segnò il brusco risveglio.

E anche la Ferrari 637 di Brunner, prodotta nel 1986, è finita nel museo della Casa solo perché serviva contro Balestre per far abolire il turbo in F.1, con la minaccia che in caso contrario il Cavallino avrebbe abbracciato la Cart e con essa la Indy 500. Alla ricerca dell’unica, vera grande affermazione che manca a tutt’ggi al suo palmares.

Insomma, di conti aperti, di sfide e scenari alternativi ve ne sono, anche se Indy è esclusa, perché a telaio monomarca. Però di certo c’è che non è la Formula Uno che fa la Ferrari ma la Ferrari che fa la Formula Uno. Senza il palo del tendone, il Circo s’affloscerebbe, ma con lo stesso supporto starebbe su qualsiasi altra bella tenda e un grande spettacolo dentro essa. Per questo, a differenza di quel mitico pomeriggio sull’Appennino Reggiano, io spero tanto che il bottegaio non esca e che la massaia, pardon, Binotto, alias la Ferrari, guardi altrove.

Sulla via del ritorno, all’improvviso, nonna tornò sull’argomento, aggiungendo: "E comunque in giro ci son piu? botteghe che bottegai antipatici. Se quello non usciva a riprenderci, noi saremmo andati da un altro".

Caro Binotto e cara Ferrari, ecco: tranquilli in giro ci son più botteghe che bottegai antipatici.


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