Ma davvero pensate che esistano solo spiegazioni tecniche e scientiste dietro al miracolo della salvezza di Grosjean dall’inferno di Sakhir?
Ancora nell’aria non è svanito l’odore di bruciato e napalm alla curva 3 di Sakhir e già vedo la fila salmodiante delle suorine barbute, le quali inneggiano, felici e giulive per lo periglio scorso, ai fantastici e imperforabili livelli di sicurezza raggiunti dalle Formula Uno d’oggidì. E giù coi moralismi, semmai, a condannare quel rail galeotto ritenuto pericolosissimo, anacronistico, quasi assassino e tale da meritare imperitura e sempiterna rimozione. Scusate, ma in questi atteggiamenti c’è qualcosa che non va. Il dato certo e sorprendente è uno solo: Romain Grosjean è uscito vivo, vegeto e il più illeso possibile da un incidente assolutamente spaventoso, il quale in qualsiasi epoca della Formula Uno eccetto questa sarebbe terminato in maniera completamente diversa e assai meno vantaggiosa per il pilota.
Ma il punto è un altro. Romain Grosjean si è salvato sol perché il safety level in pieno 2020 è alle soglie della perfezione, oppure perché, più semplicemente, ai risultati ottimi del lodevolissimo lavoro svolto in sede di contenimento dei rischi, s’è aggiunta nella fattispecie una clamorosa, incredibile, sontuosa e risolutiva botta di culo? Ecco, a me sinceramente, pare chiaro e lampante che il principale motivo che sta dietro alla salvezza del coriaceo pilota franco-svizzero è una ben accetta, storica e benvenuta dose di buonasorte, di fortuna allo stato puro, nonché di destino smaccatamente favorevole.
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Claro que sì, l’Halo funziona alla grande, l’Hans protegge il pilota, la cellula di sopravvivenza resiste, l’energia cinetica in qualche modo riesce a dissiparsi, aiutata anche dalla macchina che si spezza a metà di fatto sbriciolandosi, insomma la Federazione, gli adetti, gli studiosi e le commissioni funzionano eccome, a giudicare dai risultati, ma c’è un altro aspetto di cui tener conto. Primo, sarebbe interessante (e lo sarà in queste ore) capire, al contrario quale influsso hanno avuto sulle fiamme la struttura ibrida delle F.1 semielettrificate. Così per fugare ogni dubbio, eh. Ma giusto prima di suonare la grancasse dell’evviva che bravi e che geni della sicurezza. Non ho punti esclamativi ma solo cortesemente interrogativi. Punto due, la decelerazione cui viene sottoposto Romain è terrificante, da circa 240 Km/h a zero in pochi centimetri, l’impatto avviene con un angolo sfavorevolissimo di circa 70 gradi e le conseguenze immediate sul corpo del pilota avrebbero potuto rivelarsi assolutamente devastanti. E in ogni caso causare, se non la perdita di conoscenza, perlomeno un effetto knock out che in una situazione come questa, col fuoco immediatamente divampato, avrebbe portato a una situazione potenzialmente gravissima. Perché con Romain svenuto, l’estrazione del pilota a incendio in atto si sarebbe rivelata non solo problematica ma anche terribilmente difficile, proprio perché chi guida adesso è incassato, protetto e annegato nella scocca. Quindi, se non se ne esce da solo, diventa molto più rognoso e meno rapido tirarlo fuori in condizioni così estreme e difficilmente gestibili.
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Semplicemente, non solo Romain non ha mai perso conoscenza, ma è riuscito a fare tutto da solo, tirandosi fuori dalla trappola della scocca nel minor tempo e nel miglior modo possibili, risultando, al contrario, vispo, fradicio d’adrenalina, incredibilmente reattivo e dotato, attenzione, questo sì, di un fisico e una resistenza assolutamente al di là di ogni aspettativa. Perché neanche un parà della Legione Straniera sarebbe uscito fuori in modo così pronto e a buon mercato da una situazione così potenzialmente spaventosa e letale, simile a un incidente aereo. E la mano offerta al reduce dall’inferno dal meraviglioso Ian Roberts, il dottore della medical car, è uno dei gesti sportivi e di pura umanità più belli negli ultimi decenni di Gran Premi.
Un qualcosa che non eguaglia mica l’atto unico e irripetibile di Arturo Merzario al Nurburgring nel 1976, il quale tira fuori dai guai un Lauda appena svenuto nel rogo di Bergwerk, eppure il sudafricano va lodato, plaudito e insignito di tutti i premi possibili poiché ha saputo essere al posto giusto, nel momento giusto, senza perdere la calma e il sangue freddo, limitandosi a fare il gesto risolutivo: tendere la mano e accompagnare il naufrago dal mare d’inferno verso la salvezza. Però, detto tutto ciò, piantiamocela con la scienza e le magnifiche sorti e progressive. Grosjean se l’è cavata così bene sol perché non è svenuto, lo ripeto. E in una situazione del genere la differenza tra finire groggy o restare lucidi la decide il Padreterno, la sorte, il destino o chi per loro e null’altro. Zero ingegneri, tantomeno la safety commission o i mille sapienti i quali spiegano tutto il possibile solo con numeri e razionalità. In verità, come dicevano una volta i saggi anziani, domenica 29 novembre non era scoccata né suonata l’ora di Romain Grosjean. Non era il suo turno. Perché quando la sorte ti dà l’appuntamento, hai voglia ad avere la scienza dalla tua: no, a quel punto, proprio non c’è niente da fare. Per questo mi fanno ridere le levate di scudi a favore di questo o quello, i meriti attribuiti ai diecimila aspetti della sicurezza in grado di portare a casa un pilota quasi incolume dopo un rovello del genere.
Dai, smettiamola di fare gli scientisti e torniamo alla verità, alla realtà basica che invece s’è dimostrata ancora una volta attualissima tra le lingue di fuoco di Sakhir: l’automobilismo - e segnatamente la F.1 - è uno Sport estremo, dalle conseguenze mai del tutto gestibili e padroneggiabili. Motorsport is dangerous, lo sport del motore è terribilmente pericoloso, per quanto si cerchi di spuntargli le unghie. Non riusciremo, non riuscirete mai a domare la bestia, ma solo a confonderla e a fiaccarla, senza mai disinnescarla del tutto. Se non capiamo questo, andremo incontro solo a delusioni e disillusioni, perché la sicurezza resta un principio tendenziale e mai assoluto, col rischio che resta in ogni caso la dominante in agguato e nell’ombra. Sempre. Per questo invito a fare esattamente il contrario di quelli che trovano mille ragioni e si fanno belli di una situazione del genere.
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Per carità, di fronte all’immagine di Romain che se ne esce dal fuoco bruciacchiato e senza una scarpa, restiamo umili, sentiamoci ancor più - nelle corse come nella vita vera - sempre e per sempre nelle mani dell’imponderabile. E ringraziamo ciascuno quel qualcuno o quel qualcosa cui attribuiamo poteri che vanno al di là di quelli della pura scienza. Perché nel bell’epilogo di Romain a Sakhir la magia benigna conta quanto la scienza esatta. E un evento così dovrebbe semplicemente portarci a essere più umili, a dire mammia mia che fortuna che c’è stata, stavolta, e a evitare peana a lode politica e tecnica di questo o di quello. Perché a oggi se è andato davvero tutto bene, la decisione finale è stata solo ed esclusivamente del destino. Il quale stavolta somiglia tanto al meraviglioso Mario Brega nel film “Bianco, rosso e Verdone del 1981”, quando dice "Sta mano po’ esse fero o po’ esse piuma: oggi è stata ’na piuma".
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