Viva la fuga

Viva la fuga

Meno male che quest’inverno nucleare della Formula Uno è ravvivato dai silenzi mediatici di Hamilton, sennò ad andare in letargo sarebbe stata l’intera civiltà dei Gp...

17.01.2022 11:19

Viva la fuga, perché meno male che c’è mister Hamilton scappato chissà dove a vivacizzare, seppur pigramente e lievemente, quest’inverno nucleare della Formula Uno. Disciplina che già di suo non gira, non ruggisce, non parla e attende solo il passare del tempo che separa dagli attesissimi vernisasage delle vetture che inaugureranno la seconda generazione di turboibride. Vernissage i quali, come, sempre, non riveleranno un bel nulla, perché le vere configurazioni aerodinamiche si vedranno solo nei primi test o, tutt’al più, nella prima sessione di prove ufficiali del Gran Premio d’apertura della stagione. Quindi tanto silenzio per nulla. A parte quello di Lewis, direte. Dunque, vediamo.

Hamilton è sparito

Hammer non sta mica solo zitto. Mentre scrivo queste righe egli risulta praticamente alieno al mondo esterno, all’interno di uno spettacolare comportamento fatto appunto di niente. Dopo aver saltato il galà della Federazione Internazionale, che avrebbe dovuto premiarlo come secondo arrivato nel campionato mondiale Piloti di Formula Uno 2021, Lewis ha praticamente smesso di seguire chiunque su Instagram, twitter e Fb e dai propri canali social se ne guarda bene da pubblicare foto, stories o topic. Elettronicamente e virtualmente parlando è ormai un inquietante missing, all’interno di una specie di sciopero dell’immagine, che nella più iperconnessa delle civiltà suona come assordante forma di protesta e formidabile strumento di richiamo dell’attenzione, anche se di segno chiaramente negativo.

L’unica cosa certa è che la sua ultima uscita pubblica è datata 15 dicembre e in questo caso non poteva che essere così, poiché si trattava di una presenza a tutti gli effetti irrinunciabile, in quanto in quella data Lewis Hamilton è stato proclamato Sir dal Principe Carlo, ossia dall’erede al trono d’Inghilterra in persona. In altre parole, da oltre un mese le voci su un suo possibile ritiro dalle competizioni, o perlomeno dalla Formula Uno, non fanno che aumentare ed accavallarsi, anche se non esiste conferma alcuna da fonti ufficiali o comunque da personaggi vicini all’entourage del sette volte campione del mondo.

Quanto alla BBC - come sempre la fonte più controllata, ragionevole e certificata -, ha recentemente sottolineato che il neo-Sir, prima di prendere una decisione sul suo futuro di pilota o meno, attende di conoscere e analizzare i risultati dell’indagine promessa dalla Fia su quanto accaduto a Abu Dhabi, ovvero sul finale molto discusso della gara che ha consegnato il titolo in mano al diretto rivale Max Verstappen. Bene.

Cosa frulla nella testa di Hamilton

Volete sapere, molto semplicemente, come la penso? Tanto per cominciare, tenendo il ragionamento su un piano generale, un campione di Formula Uno non si ritira per una delusione, per rabbia o per scoramento. Non è mai successo, in settantadue anni di storia. È molto più facile, logico e probabile desumere esattamente il contrario. Di solito il peggior nemico di una personalità forte, autoriferita e vincente non è mai uno scippo subito, un’ingiustizia o un vulnus, ovvero sia il danno che la beffa, ma il suo esatto contrario. I grandissimi non hanno paura dei rovesci inaccettabili, ma temono piuttosto i troppi trionfi facili. I campionissimi smettono d’essere tali da satolli, mai da incazzati.

Se Hamilton ha sopportato senza battere ciglio titoli e titoli vinti guidando una monoposto che non aveva rivali, può digerire alla grande lo schiaffo - in parte o in gran parte ingiusto -, subìto nell’epilogo di Yas Marina. La lista dei neoiridati che diventano da felici stufi è lunga, ben popolata e presumibilmente infinita. Il punto è un altro. La rivendicazione, l’ira per l’inaccettabilità di quanto accaduto e lo smarrimento per un finale sgradito e discutibile, non solo non possono costituire motivi per gettare la spugna, ma, al contrario, in genere in personalità vincenti, positive e reattive come quelle di Lewis Hamilton e dei campioni duri e puri portano puntualmente a un aumento delle motivazioni, ad un accumulo abnorme di stress e senso della frustrazione utilizzabili come carburanti che, se adeguatamente sfruttati, possono fornire energia mentale e motivazionale a dismisura in ottica futura, nel tentativo di lavare l’onta e scrivere nuove e liberatorie pagine di storia. Quindi, in altre parole, stando ai precedenti della Formula Uno e anche al carattere al titanio di Hammer, ci sarebbe da aspettarsi non solo il suo felice ritorno sulle scene ma anche una presenza caratterizzata da una determinazione ancora più feroce nello sfidare in pista il nuovo numero uno dei Gran Premi, ovvero Max Verstappen. Dai, il contrario, su un piano strettamente psicologico, non avrebbe senso alcuno.

Corsi e ricorsi storici

Negli ultimi settanta anni solo Carlos Reutemann si è ritirato alla fine della stagione 1981 dopo aver perso il titolo contro Nelson Piquet, pilota Brabham. Ma in quell’occasione l’argentino non ce l’aveva con la Federazione Internazionale, bensì con la sua squadra, la Williams, che per oltre metà stagione l’aveva letteralmente snobbato se non sabotato. Tanto che lui stesso aveva confidato alla figlia Mariana che la sua Fw07 il giorno del warm-up della gara finale di Las Vegas non era più quella delle qualificazioni ufficiali. Da lì la delusione infinita per una corsa anonima e, soprattutto, per un mondiale perso per un solo punto. E poi, solo pochi giorni dopo, il getto della spugna. E, al termine di un inverno di trattative e preghiere del suo boss Frank Wiliams, il Gaucho era tornato sui suoi passi, salvo ripensarci di nuovo e per sempre dopo un paio di gare, verificato che le motivazioni non erano più quelle di un tempo. Perché tra Carlos e la Williams il rapporto ormai s’era incrinato per sempre, e in più Lole aveva quasi quarant’anni suonati e pensava a un altro tipo di vita.

L’altro precedente di un grande pilota che vive un inverno terribile è Ayrton Senna dopo il finale incandescente della stagione 1989, con tutto il furore per aver perso il mondiale dal compagno di squadra Alain Prost e soprattutto per sentirsi addosso il fiato e gli strali del presidente della Federazione Internazionale Jean-Marie Balestre, chiaro alleato del connazionale giurato rivale di “Beco”. Anche in questo caso, al di là delle paventate possibilità di vedere il brasiliano uscire dalla F.1, alla fine tutto torna a posto. E Ayrton laverà l’onta della sconfitta con tanto di toccata vendicatrice a Suzuka, restituendo la cortesia a Prost, stavolta su Ferrari, proprio e di nuovo nel Gp del Giappone, tramite una voluta, estrema e del tutto antisportiva collisione alla prima frenata. Anche in questo caso si temono sfracelli, nell’inverno, e alla fine la montagna partorisce il solito topolino.

Perfino il buon Nigel Mansell per due volte pare gettare la spugna per incomprensioni e amarezze, la prima nel 1990 al tramonto del suo rapporto con la Ferrari e la seconda a fine 1992 quando, pur fresco iridato, vede sfaldarsi malinconicamente il suo rapporto con la Williams, uscendo dalla F.1 da campione in carica. In entrambi i casi, tuttavia, il Leone tornerà a ruggire, l’ultima addirittura migrando trionfalmente negli Stati Uniti per aggiudicarsi alla grande il titolo IndyCar 1993 e andando vicino a vincere, pur senza riuscirci e in pratica per colpe non sue, la 500 Miglia di Indianapolis.

Una conclusione in tre punti

Tutto questo, tirando le conclusioni, mi serve per dire tre cose molto precise. La prima: Lewis Hamilton non si ritirerà mai per la delusione di Abu Dhabi. Perché per un campione non funziona così. Piuttosto è molto più probabile ipotizzare e pensare che Hammer tornerà sulla scena totalmente più massiccio e incazzato di prima.

La seconda: il suo assordante silenzio è un’azione la quale chiede una reazione. Quale? Una presa d’atto politica, un ripensamento delle autorità, un gesto, un segnale in codice, magari con implicazioni regolamentari, tale da fornire un feedback satisfattorio a Lewis Hamilton medesimo e, perché no, alla Mercedes.

Per caso basterebbe la testa di qualcuno in camiciola bianca politicamente consegnata su un piatto d’argento? Ovvero un simbolico ritocco al regolamento sportivo, tale da rappresentare una sorta di risarcimento a Lewis proiettato però sul futuro? Ecco, l’una o l’altra vanno bene, insomma, qualcosa di maledettamente simile. Anche perché se Lewis Hamilton avesse voluto ritirarsi davvero, l’avrebbe già fatto e basta, senza tenere tutti sulle spine per un mese e più: che senso avrebbe farlo a scoppio ritardato? Se uno ormai ha concluso che è tempo di cambiare vita, lo dice e pace fatta, non sta lì a covare nei secoli dei secoli, mettendo il suo team in un mare di guai. Di più. Se la Mercedes si trovasse virtualmente e forzatamente senza primo pilota e col solo George Russell disponibile, adesso batterebbe disperata l’asfalto del paddock per rompere contratti altrui al fine di salvare la situazione, piazzando un casino che la metà basta. Invece, zitti tutti. Morale della favola, se Lewis Hamilton dovesse ritirarsi davvero - perché una cosa del genere in teoria può pur sempre succedere -, allora la chiave di volta di tutto sarebbe una determinazione interiore e un calo motivazionale che non hanno niente a che vedere con il finalone di Abu Dhabi, ma che affondano le radici su considerazioni del tutto diverse. Quali? Hammer potrebbe essersi semplicemente stufato di correre e della pressione connaturata al fatto d’essere star planetaria della Formula Uno.

Oppure potrebbe aver concluso che contro un Verstappen del genere, ormai, per uno come lui, che è dalla parte sbagliatissima dei trent’anni, non ha proprio più senso insistere. Eppure Lewis Hamilton, lo ribadisco, oltre a essere un uomo e un top driver psicologicamente integro, è uno che ragiona, vive e trae ispirazione da valori, lucentezze e spunti completamente alieni a queste considerazioni buonsensaie e rinanciatarie.

Piuttosto, tutta questa faccenda mi porta a dire una cosa ulteriore, che va ben al di là del presunto caso Hamilton. Perché proprio con la spettacolarizzazione, la drammatizzazione e la messa in scena di una pseudofaccenda che si basa totalmente, svisceratamente e dichiaratamente sul nulla - con l’assenza che fa notizia, il silenzio che equivale a dichiarazione e la mancanza che diventa segnale - la F.1 del terzo millennio sublima se stessa quale disciplina della fuffa, ricettacolo di melassa e contenitore di vuoto pneumatico venduto a troppo al grammo. E c’è pure dell’altro, a peggiorare le cose. Questi della Formula Uno se la tirano da decenni perché dicono e dimostrano pacchianamente d’essere i più ricchi del mondo e poi piangono miseria se gli dici di reintrodurre i test d’interstagione perché spenderebbero tanti soldi per la benzina e si farebbero la bua al bancomat.

Questi dicono di lavorare tanto però si beccano quasi tre mesi di ferie all’anno più la pausa lunghissima del dopo ferragosto. Questi si piccano d’essere i più mediatici, i più seguiti e i più irraggiungibilmente inseguiti del Pianeta, ma poi la verità è che non hanno un cavolo da dire, né d’inverno, né, peggio ancora, quando poi le corse tornano, perché son capaci solo di fare blabla maneggiando minestroni di concetti lapalissiani. Questi, complessivamente, sul piano umano, intellettuale e sportivo-comportamentale sono talmente mosci, deludenti, scarsamente significativi e dialetticamente plastificati, ché la cosa più spettacolare, intelligente, spiazzante e furba dell’interstagione 2021-2022 è diventata - e resterà - non un fatto o una dichiarazione, ma la sua algebrica negazione, ossia il nulla. Il tacere di uno che è in vacanza, pensa te. Così l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale della stagione invernale in corso va a Lewis Hamilton, per la sua interpretazione muta de Il Silenzio dell’Innocente. In attesa, con l’auspicio e pure l’augurio sincero, di vederlo tornare presto in pista, per vestire gli agonistici e famelici panni dell’Hannibal The Cannibal di pole position e vittorie.


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