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Thanx so much Saimone Fajoli!

Scopriamo il senso profondo del trionfo di Simone Faggioli nella mitica Pikes Peak
Thanx so much Saimone Fajoli!
© Pikes Peak Hill Climb e Simone Faggioli Instagram

Mario DonniniMario Donnini

24 giu 2025 (Aggiornato alle 13:22)

Simone Faggioli corona il sogno della vita e vince la Pikes Peak, seconda gara d’America, nell’immaginario collettivo, per prestigio, heritage e collocazione onirica, dopo la Indy 500, e la salita più ambita, epica e mondialista di tutto il Motorsport.

Tutta la sua carriera, fino a oggi, è stato un infinito record di trionfi tricolori, continentali e universali, ottenendo cifre, titoli e riscontri capaci di storicizzare - preferisco in segno di rispetto utilizzare il verbo storicizzare a battere -, perfino lo score e il viatico di Mauro Nesti.

Poi, chiaro, si arriva a un punto nella vita in cui, come in certe partite di poker, il cielo del Colorado diventa l’unico limite e Simone, a sette anni dalla prima mano della Pikes Peak, dice “vedo” e si trova con le carte buone in mano. E il grande rivale, Romain Dumas, plurivincitore stavolta al volante della futuristica SuperMustang full electric, posa il ventaglio delle sue, sul tavolo, col sorriso storto del perdente di giornata. Cose che capitano.

SITUAZIONE PARTICOLARE

Il gioco funziona tutto a modo suo. Il tracciato della Pikes Peak possiamo dividerlo in una parte bassa, a suo modo veloce, non lineare ma ideale per il Nova Proto NP01 di Simone, e in una seconda parte puramente e violentemente ascensionale, tutta tornanti, da scalatori puri, laddove una 4x4 può mangiarti corpo e anima.

In poche parole, Simone gioca l’asse di briscola a due ruote motrici nella prima parte e deve prendere un bel vantaggio su Dumas, cercando di giocare il più possibile in difesa nell’ultima sezione.

Ma c’è un problema. Anzi, una soluzione. Il meteo. Con raffiche di vento violentissime a complicare tutto. Così arriva la decisione degli organizzatori. L’ascensione viene mutilata, spaccata di più della metà. Niente tempi top di poco superiori agli otto minuti: per vincere o perdere si va poco sopra o poco sotto i tre minuti e mezzo.

E dopo il turno dello scatenato Dumas, tocca a un fortissimo Diego Degasperi, con un primo intertempo bello abrasivo, andare vicino di poco più di un secondo al francese, prefigurando che Simone picchierà di più e sarà duro, durissimo, forse da kappaò.

ATTENZIONE!

Così va, perché in Tv l’anchorman urla indiavolato: «Look, look! Saimone Fajoli is first, Fajoli looks like to beat Dumas!».

Stacco. La parte successiva della salita mostra Dumas intervistato che, mentre Simone affronta l’ultima parte del tracciato, sfoggia già una faccia contrita che solo il primario di un reparto autoptico potrebbe avere. È ancora primo assoluto, fragile e momentaneo trionfatore della gara che ha già vinto cinque volte in vita sua, ma il francese sa benissimo di aver perso e dice «Sarà per l’anno prossimo».

Poi quell’urlo, dal commentatore: «Best overall time for Saimone Fajioooooli!».

No, momento. Perché poi ci sono gli scettici, i rosikoni, i pisciascuro, gli sporcastanze, quelli pronti a dire che vincere su metà tracciato non è mica la stessa cosa, la vera Pikes Peak è un’altra, eccetera eccetera.

Michele Mouton rallista da leggenda è lì in Colorado, prende un microfono in mano e lo usa per dire poche ma sentite parole che mettono tutto a posto. Queste: «Non si poteva andare fino alla cima, oggi, perché era troppo rischioso. Tutto qui. Ma la Pikes Peak si poteva e si è potuta comunque disputare sfruttando la sezione ancora in sicurezza. La competizione resta, solo che cambia tema. Ha deciso la montagna, come sempre, e tutti si sono dovuti adeguare. Questa è la verità. Quindi chi ha vinto, ha vinto con tutti i crismi della regolarità e la competizione effettuata mantiene intatto tutto il suo prestigio. La montagna ha voluto così».

È fatta.

Simone ce l’ha fatta.

‘Sto matto ha vinto. Riscritto la storia, stracciato tutto e tutti. Tirato un pugno simbolico ma tosto che manda kappaò, non per sempre, solo per i dieci secondi utili a contare out l’avversario, non tanto Dumas, non certo la Ford che tornerà più veloce e foderata di dollari di prima, ma la modernità, il racing corporate, l’automobilismo togato, le Case, il mondo dell’informazione che se la tira, presumibilmente togato e non raramente davvero sfigato, che a lui non se l’è mai fumato. Va be’, chissenefrega.

Per una volta è bello scoprire che sul tetto del mondo, al top non ci va come quasi sempre un ragazzino onnivoro, un coniglietto mannaro pronto a diventare miliardario, ma un uomo di quasi 48 anni, che li compirà il 24 luglio.

UN CASO SPECIALE

Lui non si è formato in kart, anzi, in kart se ci ha mai corso, lo ha fatto per sfidare gli amici una sera d’estate con una gazosa in palio, perché i suoi debutti agonistici sono avvenuti impennando un Apino 50 e facendo incazzare i carabinieri.

Lui non è stato modellato da scultori del corpo, dietologi di ferro, maghi delle nuove frontiere della medicina sportiva tali da dar vita a magrissimi Ivan Drago dalla mascella volitiva. Macché. Simo è l’unico e l’ultimo pilota a far cose leggendare sfoggiando un fisico perfetto  ma all’agricola, con le pappette rosse, il cuore sincero e l’incazzatura che arriva subito, se ci vuole.

Ma se non arriva, eccoti un sorriso timido che splende e gli occhi luccicanti a lucciconi, perché ha l’anima buona.

Figlio di Mario, classe 49, che campava pure lui di prototipi veloci in tutt’Italia, salvo attaccare il morbo al figlio. Che bello. Per una volta nella trama non c’è un padre potentissimo, ingombrante, politicamente sgamato ed economicamente onniscente, ma un uomo semplice, verace, a suo modo puro, purissimo. Bravo e onesto, oltre che di carattere.

Così in Simone alla Pikes Peak 2025 il Motorsport realizza l’unica rivoluzione possibile. Quella a rovescio. Antimodernista. Al contrario.

Dove si sfiora un tracciato che a monte vanta ostacoli fissi e a valle orridi strapiombi. Se sbagli sei morto o messo molto male, come ai vecchi tempi.

Puzza sotto il naso, zero. Addetti stampa zelanti, orrendi, che comandano loro, che nascondono il pilota, nada. Lo sponsor, Bardhal, pure esso sa di vintage, di ricinato e di vecchi tempi. La dico tutta. Qualche anno fa a Gubbio sono stato scarrozzato sul prototipo che, aggiornato, Simone ha portato al trionfo alla Pikes Peak. È stato spaventoso. Molto peggio che sulla F.1 biposto, triposto o su una Wrc.

Per l’occasione avevo portato il casco del TT dell’Isola di Man e Simone vedendolo aveva detto: «Grazie, perché sono questi i valori, le corse che resistono, le cose che hanno una sostanza».

Sì, ce l’hai fatta Simone. Qualcuno dice con un motore preso da uno sfasciacarrozze. Non lo so. Toccherà a te confermarlo. Sai, le leggende. So solo che grazie a te, qui e ora, e anche là, in cima al Colorado, e per un po’, il racing torna genuino, pulito, a misura d’uomo, coraggioso e ruspante.
Un abbraccio e thanx so much per il regalo, Saimone Fajoli.

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