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6 mag 2025
Alzo la mano per dire che la pole di Antonelli nella sprint di Miami più che di futuro sa di passato. E non di verdura. Ci sono gridi d’orgoglio, ruggiti di pura dignità talentuosa che s’alzano nel cielo dei Gran Premi, a coprire perfino il rumore di motori e bielle. E sono le pole degli italiani, specie quelle d’America, intendo negli Stati Uniti, sul suolo degli emigranti arrivati da Ellis Island.
Gente strana, i nostri, in F.1. Praticamente, da oltre sessant’anni, animali da corsa senza casa, risultati di una diaspora, razza racing lasciata puntualmente troppo sola. Campioni che devono soffrire, penare e sudare più degli altri, per guadagnarsi un posto in griglia di partenza, figuriamoci in cima.
È vero, c’è stato un tempo in cui ai Gran Premi arrivavano a dieci per volta, i nostri, ma era un’era folle, quella, in cui alcuni sponsor facevano fatturoni impuniti, calzaturifici costruivano bolidi, imprenditori creavano in casa giocattoli sfreccianti, al posto d’andare al lago.
Come c’è stata la Milano da bere, vi fu l’era delle corse da mangiare. Che poi, alla lunga, ti mangiavano loro e l’oro, bruciando generazioni intere. E gli italiani in casco e tuta arrivavano a frotte, ronzavano e smettevano, andando chissà dove, come nugoli d’insetti nella stagione giusta, che diventa improvvisamente sbagliata.
La verità? Per storia, tecnologia, potere, scuola e coraggio, gli italiani dovevano e dovrebbero essere i padroni delle griglie di partenza. Grazie a Bordino, Nazzaro, Varzi, Nuvolari, Fagioli e Ascari sono, siamo, i nativi delle corse, i pellerossa a trecento all’ora, quelli baciati dal Grande Spirito prima che arrivassero Colombo e i conquistadores a imbastardire tutto, con la scusa del progresso. E proprio come i figli di Manitù abbiamo combattuto sol per fare una brutta fine, quasi sparire, confinati nelle riserve, ormai aiutati solo o quasi dall’agente indiano Coletta Antonello dall’Eur, col suo trading post dell’Hypercar, splendente erede della Lancia Endurance di Cesare Fiorio.
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