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GP Monaco, tra doppi pit stop e una Ferrari difficile da comprendere

La gara nel Principato regala meno colpi di scena del previsto e strategie controverse. Nel frattempo Ferrari stupisce in positivo, ma ora si va a Barcellona
GP Monaco, tra doppi pit stop e una Ferrari difficile da comprendere
© Getty Images

Giorgio FerroGiorgio Ferro

27 mag 2025 (Aggiornato alle 08:54)

Sarà anche vero che correre a Montecarlo è un po’ come girare in bicicletta nel salotto di casa – come disse anni fa quel sarcastico dissacratore che si chiama Nelson Piquet. Eppure, ogni anno il Gp di Montecarlo è un evento che crea enormi aspettative. Moltissime legate al mondo del jet set, per le cui star è assolutamente un must essere presenti. Altrettante aspettative sono figlie della società dell’apparire per cui, se in quei giorni non organizzi una festa galattica su un mega-yacht ormeggiato nel porto, non esisti. E, di conseguenza, tutti a vedere queste esibizioni di lusso e vanità.

Poi ci sono anche alcune aspettative in ambito sportivo. Perché in quel toboga, prima o poi, può sempre succedere qualcosa. Lo dice la Storia. E quindi conviene non staccare mai gli occhi dalla pista. Salvo poi magari rendersi conto, a bocce ferme, di aver perso un pomeriggio a guardare un freddo trenino di bolidi. Che poi, ad essere sinceri, accade nella stragrande maggioranza dei casi…

Monaco e la regola del doppio pit stop: è davvero servita?

Quest’anno, proprio per tentare di evitare la noia dei trenini, la FIA si è inventata la regola del doppio pit stop obbligatorio. E via a scatenare idee e illazioni su chissà quale strategia vincente. Qualcuno ha provato ad inventare – Racing Bulls e Williams, nello specifico – sacrificando una propria vettura a fare da tappo per regalare al compagno un pit stop “gratis”, ovvero senza perdite di posizioni. Qualcuno si è addormentato, leggi Mercedes. Peraltro, l’impressione è stata che la maggioranza dei team sia entrata pragmaticamente in gara con la consapevolezza che questi due pit stop sarebbero stati di fatto due jolly da giocarsi in caso fosse successo qualcosa di traumatico nel flusso della gara. Evento peraltro piuttosto frequente là, che stavolta però non è mai capitato. Ed ecco che all’arrivo le vetture si sono presentate esattamente con lo stesso ordine col quale erano partite. Unica defezione quella del povero Alonso, fermato dal suo motore andato in fumo. E un paio di scambi di posizione tra i piloti a metà del gruppo, tra cui Hamilton.

Insomma, ancora una volta a Montecarlo ha prevalso la conquista del posto al sole in qualifica, perché è il layout della pista ad essere la variabile dominante. E non è servito inventarsi artifici regolamentari che hanno prodotto l’unico risultato di aumentare la confusione intorno a metà gara. Una qualifica in cui stavolta è stato Leclerc a rompere le uova nel paniere McLaren. Un decimo di ritardo rispetto al poleman Norris, mettendosi però davanti a Piastri. Visto come erano andate le qualifiche a Imola, solo una settimana fa, è stata una sorpresa. O no?

Lo strano caso della Ferrari SF-25 (aspettando Barcellona)

A tal proposito, vi voglio raccontare una storia. C’era una volta una vettura di F1 che in pista aveva un comportamento scorbutico, a tratti incomprensibile. Performance scadente e piloti depressi.

Voi sapete che ogni configurazione aerodinamica ha delle mappature che dicono come varia la deportanza anteriore e posteriore – e di conseguenza, il bilancio tra i due assali – al variare delle altezze da terra. Variare il bilancio vuol dire, in buona sostanza, imporre alla vettura un diverso comportamento, verso il sottosterzo o il sovrasterzo. Le altezze da terra, lo sappiamo, variano con la velocità e con i trasferimenti di carico in accelerazione e frenata. E variano da inizio gara col pieno di carburante a fine gara, identificando una zona di lavoro legata al layout del circuito in cui si corre e conseguente alla dinamica della vettura.

In fase di ricerca del set-up ottimale, l’obiettivo è fare in modo che si lavori in una finestra in cui il bilancio aerodinamico si mantiene il più possibile costante, consegnando così al pilota una vettura dal comportamento sincero e costante in tutte le situazioni. Soluzione non sempre raggiungibile che porta dunque a scegliere spesso un set-up di compromesso. Ma ci sono diversi livelli di compromesso…

Torniamo alla vettura della nostra storia. Dicevamo che era come un toro meccanico scorbutico da domare. C’erano circuiti in cui i piloti soffrivano tremendamente nel gestire le reazioni inconsulte della vettura, con forte impatto negativo sul cronometro, ovviamente. Capitava quasi sempre così, con poche eccezioni.

Ebbene, grazie ad una serie di rilievi specifici in pista, si scoprì che la configurazione aerodinamica che era stata progettata per quella vettura era estremamente sensibile alle variazioni di assetto. Aveva un livello complessivo di deportanza davvero notevole, ma concentrato in una ristretta zona di assetti. Bastava muoversi di pochi millimetri rispetto al suolo perché la deportanza diminuisse esageratamente o si spostasse da un assale all’altro. Conseguentemente, il bilancio aerodinamico – che abbiamo visto essere fortemente legato alla guidabilità della vettura – cambiava notevolmente a seconda se si fosse bassi o alti da terra, picchiati o cabrati. Ovvero in curve ad alta o bassa velocità, oppure in inserimento piuttosto che in uscita curva. E anche da inizio a fine gara.

Insomma, era un grande problema trovare un set-up che minimizzasse queste criticità su quella vettura. I piloti si trovavano a guidare una vettura dalle reazioni diverse curva dopo curva e giro dopo giro. Gli interventi sulle rigidezze delle molle per minimizzare gli schiacciamenti – e di conseguenza ridurre la finestra di lavoro sulle mappe – non facevano altro che innescare altre problematiche di tipo meccanico. Per esempio, la vettura rischiava di saltare come un canguro nel passaggio sui cordoli o perdeva drammaticamente la motricità in uscita curva.

Capitava però anche che in qualche circuito la vettura si comportasse eccezionalmente bene. Essenzialmente laddove la finestra di lavoro sulle mappe aerodinamiche era più stretta e quindi causava poche variazioni di deportanza. Per esempio, in circuiti con solo curve lente. Ecco che così il processo di messa a punto del set-up diventava più agevole riuscendo a rendere felici i piloti che potevano finalmente guidare una vettura prevedibile. Dappertutto.

Capitava e capita ancora che una vettura nasca con queste caratteristiche. Che non riesci a trovare la quadra sul set-up e sia inguidabile nella maggioranza dei circuiti. E poi magari arrivi a Montecarlo – che ha solo curve lente e, come si sente dire, “l’aerodinamica conta poco” – ed il cronometro ti fa sorridere. Era capitato su quella vettura e può capitare ancora. E forse non ci si dovrebbe sorprendere che Leclerc sia andato così forte. Poi però si va a Barcellona…

 

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