L'olandese gara dopo gara sta sempre più dando corpo a quello che sarebbe il suo mondiale più autoprodotto e meritato
Perché a un terzo di stagione un uomo solo è al comando, Max, il suo vantaggio si assottiglia sempre più e i suoi avversari aumentano spietatamente, dentro e fuori dalla pista.
Al box suo padre e Marko fanno il cinema contro il team principal Christian Horner che squisitamente contraccambia, mentre il genio Newey, a palle silenziosamente rotte, da Miami in poi si cava le cuffie salutando la poco allegra e chiassosa brigata. Lasciandole in mano la monoposto Red Bull che in fondo capisce, conosce, sa gestire e far crescere solo lui al mondo, quindi pensa te che casino succede.
E questo è niente, perché nel frattempo Max si ritrova contro a ogni pie’ sospinto anche la Federazione, in quanto lui appare sempre più uno ben dotato e sfrontato anche dialetticamente, un parlachiaro diverso dai signorsì o dai felpati giovani democristiani che costituiscono gran parte dei Circus di oggi.
Max, insomma, è un Maradona perennemente sobrio e senza vizi, ma dotato della stessa impudenza imprudente del Pibe, quando ci si mette, e per Ben Sulayem è un attimo trasformarsi nel ritornante istituzionale di Joao Havelange, con scintille e tensioni che esplodono per un nonnulla.
E c’è tant’altro, perché nel frattempo la McLaren navigata meravigliosamente da Andrea Stella svernicia tutti e a turno Ferrari e Mercedes vivono, a corrente alternata, giornate in cui diventano astronavi contro le quali c’è poco da fare.
Max a tre quinti di stagione è all’angolo ovunque. In pista, in politica e al box. Sulle prime sbrocca e in Austria con Norris si rimette a fare sterilmente il figlio di buona donna, come spesso prima gli capitava.
Poi no. Riflette. Respira. Conta fino a venti e cambia modulazione, trasformandosi da brasiliano del volante, tutto racing bailado, in sontuoso catenacciaro dell’iride. Dando vita ad Austin alla difesa attiva più bella e spettacolare nella storia della Formula Uno recente, fino a tirar scemo il povero Lando Norris che ormai è in quello stato mentale e agonisticamente affettivo in cui si diventa autorizzati a cantare “Ci vorrebbe un amico” di Antonello Venditti.
Insomma, il Texas parla chiaro. Nella Formula Uno il mondiale non se lo stanno giocando due piloti, ma uno solo, contro tutti. Il più bravo, il più tetragono, il più sfacciato, il più spregiudicato, contrapposto al mondo intero.
E così improvvisamente scopriamo che per simpatico o antipatico che sia in questa Formolaunaccia tutta quattrini, giocacci, lustrini, lusso e finto glamour, in mezzo a un oceano oleoso e maleodorante di cose mica tanto carine, si staglia il comignolo della presa d’aria della Red Bull di Max che difendendo strenuamente se stesso, la sua leadership e la voglia di far suo il quarto mondiale, sta compiendo passo dopo passo, gara dopo gara, la sua impresa più bella.
GP USA: prova di forza della Ferrari, la SF-24 cala il poker!
Quella del primo titolo iridato turboibrido finalmente conquistato dall’Uomo, da un ragazzo non alieno da difetti a tratti scostanti ma immensamente ricco di qualità lucenti e anche di attributi, diciamolo, dal diametro, dalla preziosità e dalla consistenza dei diamanti più puri incrociati con le noci tignose di nonna.
Cari appassionati della saga di Terminator, egregi studiosi del neo Umanesimo, esimii denunzianti la disumanizzazione delle corse, sappiate che questo mondiale e le gare che ci restano rappresenteranno la sfida e l’esaltazione finale di un semplice Uomo contrapposto alle macchine, ai poteri e al Sistema.
Così, gira gira, il quarto titolo di Max potrebbe essere il più vero per lui e quello più disintossicante per tutti noi.
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