Gli sforzi di Hamilton volti ad esprimersi nella nostra lingua sono stupendi segni di rispetto per gli appassionati
Lo scorso 12 febbraio Lewis Hamilton era a Maranello, al lavoro al simulatore, e per l’occasione ha salutato i dipendenti del Reparto Corse in italiano, leggendo dal suo iphone un messaggio benaugurale: «Grazie per il vostro caloroso benvenuto. Sono felice di iniziare questa nuova avventura con voi, in Ferrari. È sempre stato il mio sogno fare parte di questa squadra. Non vedo l’ora di lavorare con voi».
Ciò fa il paio con le primissime parole di saluto pronunciate ai tifosi al primo ingresso ufficiale in Ferrari, in gennaio, in quello che viene ricordato come il giorno del cappotto nero. A dimostrazione di una chiara volontà di comunicare nella lingua del Paese che ora lo ospita.
Qualcuno, per l’occasione, commentando nei social la frasina letta dallo smartphone, lo ha anche sfottuto, poiché ciò dimostrerebbe che le lezioni d’italiano che sta prendendo da inizio inverno evidentemente non sono ancora approdate a risultati strutturati. A me sembra vero il contrario. Uno che pur di parlare italiano preferisce leggere un messaggio anziché ricorrere a un interprete, vuol mettere in chiaro come la pensa. E cioè che un pilota della Ferrari deve farsi capire dai suoi primi fans, ossia dai ragazzi del Reparto Corse, e anche da tutti gli altri.
Be’, era ora. Sì, era ora, perché non se ne poteva più di Vip ingaggiati che beccano oceani di sghei e in pubblico parlano italiano come ET.
C’è un principio sacro, logico e secco, nel mondo del lavoro, a qualsiasi livello e in ogni parte del mondo, il quale dice che se vai ben pagato prestare la tua opera in un Paese, ne devi come minimo imparare la lingua. E se ci vai mal pagato - secoli di emigrazione dolorosa fatta da generazioni italiani lo dimostrano -, a maggior ragione ti devi integrare, anche e soprattutto linguisticamente.
Alcuni obiettano che in fondo correre per la Ferrari F.1 non significa lavorare in Italia, ma nel mondo. Ed è vero. Costoro aggiungono che la lingua ufficiale del Circus non è mica l’italiano, bensì l’inglese, così come il latino è quella della Chiesa. Giusto. Però è anche vero che nella modernità qualsiasi Papa straniero studia italiano fin da cardinale e lo parla perfettamente, visto che sarebbe innaturale, ingiusto e spiacevole il contrario. E se a questa realtà si sottopone il rappresentante della divinità in Terra, non si vede perché questo non debba valere per uno sportivo a 24 carati che arriva, si becca tre autotreni di banconote fior di conio e vive straricco per il resto della vita, considerando che già lo era prima.
Sarò sincero: Lewis che si ostina a parlare italiano fin da quando non potrebbe, è il contrario algebrico di Michael Schumacher, che la lingua del Manzoni dai e dai l’aveva imparata da un pezzo ma si ostinava a esprimersi in inglese, frapponendo una barriera difensiva tra sé e il resto, giornalisti in primis, perché non si sa mai.
Poi lo Schumi ferrarista per il resto lo adoro e lo difenderei a spada tratta, perché in Ferrari ha vinto tanti Gp, 72, quanti quelli vinti dai successivi piloti della Rossa messi insieme. Ma il tema di queste righe è la lingua italiana e ad esso asetticamente mi attengo. Quindi Michael che capisce e parla italiano ma non lo fa è un’aggravante, mentre Hamilton che ancora non lo capisce bene ma lo parla lo stesso è un segnale opposto e stupendo. E pure necessario.
Non dimentichiamo che nell’era dell’iperconnessione un pilota Ferrari da noi vanta un’esposizione mediatica seconda solo al Presidente Sergio Mattarella, a Giorgia Meloni, Stefano De Martino e Giorgia Cardinaletti e ben più intensa rispetto a qualsiasi Ministro. Quindi, che fai, vieni, corri e parli strano come una guardia di confine?
E poi c’è una cosa che mi manda dai matti: qualsiasi calciatore slavo, turcomanno o del Dadokatzovieninstan, nel giro di tre mesi arriva e mastica comprensibilmente italiano, magari alla Boskov o alla Don Lurio, ma lo parla e si fa capire, eccome. E si tratta di ventenni che sfrecciano in mutande calciando una sfera piena di vento.
Certi piloti F.1 invece campano da una vita a Montecarlo, a due passi da Mentone, lavorano esplorando nei briefing le frontiere dell’ingegneria aerospaziale, sono intelligentissimi, iperanalitici, ricettivi e super-reattivi, girano ventiquattro volte otto manettini a tornata e poi si rivelano riluttanti a voler declamare “ciao mama, sono contento di correre per Il Cavallino”, ché solo per far imparare al caro Eddie Irvine a dire “Me piace cammenare e guedare” in uno spot di scarpe, ci vollero due logopedisti e uno stregone di Spoleto.
Posso dirlo? Noi italiani siamo stati colonizzati, invasi, occupati e conquistati da milleseicento anni a questa parte, fatto salvo l’aiuto dei Savoia. Il grande Eduardo De Filippo diceva che i napoletani e anche tutti noi gesticoliamo tanto perché per secoli e secoli costretti a esprimerci da sudditi mal capiti e mazziati a casa nostra, da spagnoli, austriaci, tedeschi e quant’altri.
Mo’ che ci siamo messi in proprio col Tricolore e che, nel caso della Ferrari e non solo della Ferrari, paghiamo bene chi ci onora dei suoi servizi, il minimo da pretendere è che chi timbra il cartellino inizi la giornata dicendo “buongiorno”.
Quindi, immenso Lewis Hamilton, il quale tutto questo l’ha metabolizzato, facendone la bandiera mediatica del suo esordio. E ricordandoci anche una cosa preziosa per chiunque. Perché Hammer che va a ripetizione a quarant’anni insegna che la nostra lingua potrebbe e dovrebbe essere studiata perfino da chi nel mondo la parla di meno e lo parla peggio, ossia da noi italiani.
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