500 Miglia di Indianapolis: la rivincita di Marcus Ericsson

500 Miglia di Indianapolis: la rivincita di Marcus Ericsson© @Chip Ganassi Racing

Scaricato dalla F1 dopo anni deludenti, lo svedese si è ricostruito una carriera in America, dove è riuscito a centrare una delle vittorie più mitiche nel panorama mondiale delle corse

31.05.2022 ( Aggiornata il 31.05.2022 13:19 )

E dire che è diventato pilota così, un po' per caso. Bastò una giornata sui kart per cambiargli la vita, per fargli capire che correre in macchina era il suo desiderio più grande e, soprattutto, il suo destino. Solo che Marcus Ericsson rischiava di essere uno dei tanti, poi invece è arrivata la 500 Miglia di Indianapolis 2022.

Ma quanto vale davvero Marcus Ericsson? La domanda è lecita, e forse qualcuno nel mondo della F1 dovrà chiedergli scusa. Di certo, quando a fine 2018 fu fatto fuori dall'Alfa Romeo-Sauber, nessuno pensò che un pilota così sarebbe potuto mancare al Circus. Non è cattiveria, solo la verità: perché in quattro anni aveva fatto alcune cose buone ma tante altre, diciamo così, rivedibili. E poi stava finendo fuori dal giro per far posto a Kimi Raikkonen, mica uno qualunque, uno per il quale tra l'altro aveva corso nella Formula 3 inglese di qualche anno prima, quando Marcus aveva 20 anni e sognava la F1. Quella stessa F1 che sarebbe arrivata nel 2014, in una Caterham senza ambizioni e, si scoprì poi alla fine di quella stagione, senza soldi, tanto che le ultime tre gare Marcus se le guardò dal divano. Ma per sua fortuna, il futuro se lo era già assicurato: per il 2015 aveva pronto un contratto con la Sauber.

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In F1 Marcus non ha brillato

Ed è qui, probabilmente, che si inizia a far fatica ad inquadrare questo pilota. Come se ci fosse la sensazione che Ericsson non si sia mai tolto di dosso quella scomodissima etichetta di pilota pagante, neanche quando le prestazioni buone sono arrivate. Perché qualche prestazione buona, del resto, c'è stata. Il problema era il confronto con i compagni di squadra: le prese quasi sempre da un Kamui Kobayashi (anche se finirono entrambi a quota zero in classifica causa scarse prestazioni della CT05) ormai rassegnato all'addio alla F1, fece un terzo di punti di Felipe Nasr (bravino, ma non era Senna) nel 2015 e di punti non ne fece l'anno dopo, quando Nasr di punti ne portò a casa 2 ma fondamentali per garantire alla Sauber la top 10 tra i Costruttori; la squadra ringraziò il brasiliano licenziandolo e tenendo, senza apparente logica sportiva, Ericsson per il 2017 insieme al nuovo arrivato Pascal Wehrlein. Fu qui, probabilmente, che l'etichetta di pilota pagante si attaccò in maniera viscerale, perché era sotto gli occhi di tutti come, tra lui e Nasr, a meritare il posto fosse Felipe.

Quindi il confronto, perso, con Wehrlein (5 punti Pascal, 0 Marcus), anche se per il 2018 a rimanere in Sauber, da allora con gli adesivi Alfa Romeo, fu lui e non il tedesco. Arrivò niente meno che Charles Leclerc con cui confrontarsi: e nel 2018 che resterà l'ultima annata in F1 dello svedese, dopo qualche difficoltà iniziale il monegasco lo bastonò regolarmente, chiudendo sul 39-9 il confronto in termini di punti.

Il contratto da terzo pilota per il 2019, alle spalle di Raikkonen e Giovinazzi, era solo un contentino. Marcus lo sapeva ed intelligentemente si guardò intorno: decise che la sua nuova vita sarebbe stata in America. Ed alla quarta stagione, dopo due vittorie nel 2021, il colpaccio di Indianapolis.

Una nuova vita in America

Dunque, la domanda ritorna: quanto vale Marcus Ericsson? Negli ultimi due anni in F1 non ha avuto compagni di squadra accomodanti, Wehrlein e Leclerc, e probabilmente ha vissuto a lungo con la pressione tipica di chi ha la valigia, che se da una parte ha il posto sicuro, dall'altra vive nella perenne ansia di dover dimostrare di meritare il posto. Pure la gavetta giovanile lasciava qualche dubbio: aveva vinto "solo" Formula BMW Inglese e Formula 3 Giapponese, troppo poco rispetto ad altri. Ma la nuova avventura in America ha fatto capire una cosa: guai a smettere di sognare. E guai pure a smettere di impegnarsi, anche dopo le delusioni.

Nella IndyCar Marcus è arrivato in punta di piedi, in silenzio, riscontrando un disinteresse piuttosto marcato dall'altro lato dell'Oceano per chi arriva in F1 dopo tanti GP spesi nelle retrovie. Ha lavorato sodo per raddrizzare una carriera che, a 29 anni, non poteva aver già vissuto il meglio. Ci ha creduto fino alla fine, anche quando, dopo i guai di Palou e Dixon, era diventato l'ultima carta per Ganassi; ha continuato a crederci quando ha visto la bandiera rossa annullargli quel cuscinetto di vantaggio che sarebbe stato decisivo a pochi passaggi dalla fine; non ha sbagliato quando ha dovuto spiegare a Patricio O'Ward che il Messico, per quella giornata, poteva consolarsi con la vittoria a Monaco di Sergio Perez. Ed alla fine ha vinto, andandosi a prendere il sorso di latte più dolce della sua vita. Insegnando a tutti che puoi anche non essere il talento più cristallino tra quelli che prendono il via insieme a te: ma bisogna saper lottare, rialzarsi e sfruttare le occasioni. Del resto, anche questo è un talento. Lo ha insegnato Marcus Ericsson.


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