Altro che rivoluzione regolamentare F.1... Il vero, certo e quasi inatteso evento tellurico è la salita al potere di Mohammed Ben Sulayem
Se a Enzo Ferrari avessero detto di un arabo prossimo Presidente della Fia, avrebbe risposto che era probabile come vedere uno di Spilamberto a capo della Federazione mondiale Cricket. Ma tant’è. Cosa fatta, capo ha. E pure la Fia il nuovo capo lo ha, al secolo Mohammed Ben Sulayem. Per la verità, fine, educato all’europea, delizioso galantuomo classe ’61, nativo di Dubai, già rallista di buona fama, esperto off-road e organizzatore di raid. Uno che dal punto di vista politico e geopolitico sposta eccome e non solo per origine, cultura e natali. Anzi, diciamo pure che il suo avvento potrebbe segnare una mezza rivoluzione, pur coi tempi rallentati della politica e dello spoils system, ossia il fenomeno che vede mutare tutti gli alti dirigenti di un organismo all’affermarsi di una nuova leadership. Ma andiamo con ordine.
Tanto per cominciare, non v’è negli ultimi decenni metamorfosi più grande e significativa di quella della plancia di comando dell’automobilismo sportivo. Creata nel 1904 come Association Internationale des Automobile Clubs Reconnus - in italiano Associazione Internazionale degli Automobil Club Riconosciuti -, l’entità si perigliava anche di organizzare gare internazionali di automobilismo e nel 1924 dava vita a una sua filiazione specificatamente a competenza sportiva, ovvero la la Commission Sportive Internationale, in sigla CSI, per la gestione dei cosiddetti Grand Prix e altri tipi di competizioni a livello mondiale ma soprattutto a base europea. In poche parole, storicamente e funzionalmente, il Presidente della CSI, pur essendo in teoria un uomo molto potente e dalle attribuzioni significative, per decenni è stato un quieto notaio, spesso un augusto e misurato nobiluomo, puntualmente lontano da riflettori, politiche e polemiche.
In effetti dei Presidenti reggenti René de Knyff (1922-1946), Augustin Perouse (1946-1961), Maurice Baumgartner (1961-1970) e del principe Paul Alfons von Metternich-Winneburg (1970-1976) nessuno ne ha mai sentito parlare per qualcosa che non fosse un gala, una premiazione o una sontuosa sbicchierata. Si trattava perlopiù di una carica onorifica e di raccordo tra federazioni nazionali e grandi costruttori, una figura d’alto e specchiato garante che di fatto tanto valeva ma poco voleva e pochissimo spostava.
Ai tempi, per dire, contava molto di più il barone Huschke von Hanstein, uomo Porsche e potente esponente nella federazione nazionale, che non il capo dei capi della CSI, ecco. Tanto che nel 1978, quando scoppiano le grane delle wing-car Lotus, delle minigonne e del ventilatore sulla Brabham, più la morte di Peterson e la squalifica di Patrese al Glen, nessuno fa caso che a capo della CSI v’è l’oscuro e onestissimo belga Pierre Ugeux. Costui per gran parte dell’anno mediaticamente tace, manco mai appare e alla fine se ne va, lasciando la scena al leader della Federazione francese, Jean-Marie Balestre, che darà il via a un cambiamento epocale, tellurico e autocratico che muterà per sempre la storia delle corse e del potere nelle stesse.
Ecco, da fine 1978 in poi stare su quella poltrona conta eccome e permette di cambiare le cose. Tanto che lo stesso Balestre ritiene la CSI organo ormai vecchio e stracco, rimodellandolo a sua immagine e ribattezzandolo FISA, ovvero Federazione Internazionale dello Sport automobilistico. E questo è niente: da qui dà la scalata e nel 1985 sostituisce il Principe di Metternich al vertice supremo della FIA. Bingo. Balestre in F.1, nell’endurance e nello sport conta eccome. Entra in guerra con Ecclestone, con le entità dello sport Usa, su tutte Imsa e Cart, tendenti a far come gli pare, coalizza in F.1 i grandi costruttori, Ferrari e Renault per primi, a suo favore, osteggia la Foca di Bernie e degli inglesi e dà vita al Patto della Concordia, al Gruppo C e alla formula consumo sia nell’endurance che in F.1, letteralmente cambiando faccia al Motorsport in coniugazione automobilistica. Anche se in realtà chi tiene le fila dei processi economici nei Gp resta Bernie Ecclestone. Bernie e Balestre, sì, loro.
La vera guerra di potere alla fine vince Mister E, silurando il rivale e facendo eleggere nel 1991 Max Mosley, già socio March e avvocato di fiducia di Bernie, a Presidente della Fisa e poco dopo della Fia, unificando le cariche e di fatto sciogliendo la Fisa stessa, con Bernie nuovo vicepresidente federale, in camiciola bianca. Attenzione, adesso, perché la faccenda si fa interessante davvero. Dal 1991 al 2009 Max e Bernie discutono spesso in pubblico, ma più che altro fanno finta, perché mediamente vanno d’accordo eccome. Fanno fuori l’endurance e il relativo mondiale, creano lo sport dell’auto formulaunocentrico e trasformano i Gran Premi nella più grande fabbrica di dollari a base sportiva mai vista su scala mondiale. Il giochino finisce quando Mosley viene coinvolto in uno scandalo a luci rosse, derivato da una vendetta per un mancato affare nel cedimento dei diritti mediatici e non solo della F.1, con Max che viene messo alle strette e, di fatto, costretto a mollare la poltrona, dopo quasi vent’anni.
A chi? A Jean Todt, in quel momento reduce da un’uscita non amichevolessima dalla Ferrari. A questo punto è carino fare due più due: Mosley ha sempre ritenuto la Ferrari una sua non alleata, anzi, un soggetto che ha contribuito alla sua fine politica e, del tutto casualmente, pensa te, dà l’endorsement a Jean Todt, ovvero a chi dalla Rossa s’era da poco accomiatato appunto non del tutto felicemente. In altre parole, tra Mosley e Todt non è lecito ravvisare omogeneità politica, questo no, però tra i due non v’è vera soluzione di continuità, anche se Jean Todt medesimo negli anni si dimostrerà poi libero, autonomo e capace di portare avanti punti e passi politico-amministrativi fortissimi, come la rinascita del Wec, la nascita della Formula E, l’ibridizzazione della F.1 e del Wrc e la virata globale verso la sostenibilità, più la campagna mondiale in nome della sicurezza stradale. Ma il punto della faccenda è un altro.
Con l’arrivo di Mohammed Ben Sulayem tante cose potrebbero cambiare. Primo, perché Ben Sulayem ha sconfitto alle elezioni Graham Stoker, che era la filiazione diretta e l’erede politico in pectore di Todt. Secondo, perché l’arabo rappresenta per la prima volta dal 1991 a oggi un personaggio di spicco che si pone in linea di rottura e non di continuità con la linea direttiva precedente. Non solo. Ben Sulayem incarna la figura del colto e squisito alieno alle stanze del potere, rispetto al passato. Cioè, mai visto uno così in un ruolo così. Perché è arabo, certo, ma anche poiché filosoficamente è e resta pilota, organizzatore, uomo di rally e di raid ancor più e in forma diversa da quando e di quanto lo fosse lo stesso Todt quando arrivò al vertice della Federazione, nell’ottobre 2009. Poi c’è dell’altro. Ben Sulayem è amico di Bernie Ecclestone molto più di quanto non lo fosse Jean Todt, tanto che alla sua elezione s’è subito deliziato di proporre come vice-presidente per lo sport Fabiana Flosi, ovvero la moglie di Ecclestone Sulayem naturalmente ha subito specificato che il nome di Fabiana è emerso per il suo lavoro svolto in Brasile e non per qualsiasi legame col marito. Bene. Ma andiamo avanti. I dati certi sono altri.
L’avvento di Sulayem segna una svolta epocale. Lo abbiamo visto nel dettaglio, anzitutto non ponendosi in successione lineare coi precedenti tedofori della fiaccola del potere sportivo legato al mondo dell’Automobile da corsa e oltre. La sua estrazione, la sua cultura, la sua sensibilità, lo rendono elemento del tutto inedito e capace d’intraprendere direzioni fino a poco fa inattese. Vedremo e scopriremo con interessata curiosità quali. Intanto, buon lavoro.
As-salamu alaykum, Presidente.
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