Se c’è un dio dei rally, la Lancia deve tornare!

Se c’è un dio dei rally, la Lancia deve tornare!

L’assenza dolorosa e ripetuta della Casa italiana dalla disciplina dei traversi non è più né prorogabile né sopportabile!

07.02.2022 17:38

Il caso Lancia è unico all’interno dell’epopea delle corse e, soprattutto, nella percezione del marchio nell’animo degli appassionati, oltre che nella storia dell’imprenditoria italiana e non solo. Lancia è tutto ciò che gli altri non sono mai stati, un’industria importante ma mai elefantiaca e sempre dotata di un piglio caratterizzante e fascinoso, di classe ma non necessariamente da ricchi, ricconi o riccastri, capace di carezzare il fascino discreto della borghesia realizzando con la stassa lucentezza coupé, berline, presidenziali, camion, Formula Uno, prototipi e macchine da rally. Sempre cogliendo nel segno e dando un segnale di carattere, originalità e spessore. Lancia in Formula Uno è sinonimo della leggendaria D50 a serbatoi laterali, nata, cresciuta e ammirata per una manciata di Gran Premi tra il 1954 e il 1955, prima di finire vittima dell’addio alle corse della Casa e per questo ceduta alla Ferrari nei suoi esemplari costruiti. Per trasformarsi e riconverstirsi in creatura del Cavallino Rampante, capace di vincere il mondiale Piloti 1956 con Juan-Manuel Fangio, nel suo unico anno di permanenza a Maranello.

Ma Lancia è anche e soprattutto sinonimo di rally e sfide e vittorie epiche in tutti gli angoli del Pianeta. Se Alberto Ascari con la D50 aveva sperimentato financo la navigazione marittima nel porto di Montecarlo, con le Lancia nei rally si va dalle nevi alle savane, alle meteore greche fino ai salti finlandesi attraversando gli asfalti della Corsica e i percorsi misti del Sanremo che fu, fino all’epopea africana, la vittoria sempre negata al Safari e infine colta e ripetuta dal grande Biasion, con la Delta Gruppo A.

Lancia, diciamolo, è tante cose. Di forma e sostanza. È il richiamo romantico della Fulvia di Munari al Montecarlo 1972, ma anche l’avvento della Stratos, la belva nata per vincere, che cambia letteralmente la storia delle competizioni a note navigate, esplodendo in faccia e nel cuore ai race fans di tutto il mondo con la sua eterna linea ininvecchiabile, innamorante e vasocostrittrice: perché da inizio Anni ’70 a oggi, quando vedi una Stratos in Tv, sul telefono, o, rarissimamente per strada, se hai almeno un bicchiere di sangue nelle vene, si alza la pressione, il cuore ti manca un colpo e provi emozione, punto.

Si dice che perfino alla 24 Ore di Daytona e alla 12 Ore di Sebring dei Seventies, quando il privato Anatoly Arutunoff schierava la sua Stratos assolutamente indipendente e priva di supporto, quindi senza alcuna possibilità di ben figurare e certa d’essere innocua pluridoppiata nelle notti della Florida, i race fans la festeggiassero a ogni passaggio a bordo pista, dando vita comunque una deliziosa festa mobile per occhi e orecchie.

E la 037? Due sole ruote motrici contro la sempre più imperante trazione integrale dell’Audi, ma cosa importa, quando una vettura sa essere inno di italianità, potenza, gestione geniale e trionfi a raffica?

Okay, Munari, Alen, Rohrl, Biasion, magari pure “Tony” con quel successo proprio da privato al Sanremo 1979, ma pure Darniche non scherza in salsa Chardonnet... Potremmo dirne tante, leggerne infinite di note dolci per suonare questo violino, ma c’è un nome e pure un cognome che tutto assomma, tanto spiega e ogni cosa incarna, ovvero Cesare Fiorio.

Il Grande Cesare. Perché molto, anche se non tutto, in Lancia, trae linfa e motivazioni dal suo impeto infinito d’agitatore d’uomini, d’avvelenatore mentale d’avversari e dal battitore di piste prima inesplorate. Da pioniere tattico di comunicazioni, strategie, alchimie, pieghe regolamentari e scelte stretegiche. Con un genio vivissimo, creativo, ottimizzante mezzi e budget ma anche culturalmente e meravigliosamente italiano. Nostro. Nostrissimo.

Sì, per la sostanza tecnica, le caratteristiche, il motore Ferrari per la Stratos, il Volumex per la 037, le esasperazioni terrificanti della S4 Gruppo B e il ritorno al rallismo dal volto umano con la Delta nelle sue molteplici versioni, a portare a casa una mitragliata impressionante di titoli mondiali, senza trascurare neanche le stordenti Ecv e Ecv2, attrici mai tifate e non sfreccianti del mai nato Gruppo S...

A latere la mini-saga endurance, con l’arrivo della Lancia Beta Montecarlo a fine Anni ’70 che dapprima fa bingo nella categoria minore e poi con furbe scorribande, disturbando la Porsche nella classe di più alta cilindrata, coglie la chance di andare a vincere e rivincere il mondiale endurance, riuscendo anche a far suo il campionato tedesco sport con Hans Heyer, col cappellino alla tirolese.

Prestando il fianco all’arrivo della Lc1 Gruppo 6 nel 1982 e quindi della Lc2 fino a Le Mans 1986, a dare un segnale di vitalità e anche un senso all’intera categoria delle corse di durata, finendo per ingaggiare il veterano Bob Wollek accanto alla pattuglia degli italiani neoprofessionisti lodevolmente e meravigliosamente allevati da Fiorio medesimo, tra i quali brillano Alboreto, Patrese, Fabi, Martini, Nannini, De Cesaris, Ghinzani, Gabbiani e Barilla.

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Dai, Lancia non è solo un marchio, ma il nome attribuito a un modo bellissimo d’esercitare passione, talento e italianità nelle competizioni più estreme e affascinanti, con le livree più belle mai viste nel mondo delle corse, prime su tutte quelle Alitalia e Martini. E, poche storie, il punto, nei decenni, non è più solo questo ed è diventato un altro.

Da tre decadi Lancia è anche il nome e il sinonimo che gli sportivi più duri e puri danno al dolore che dà la nostalgia. A quella malìa pungente che assale pensando a cosa sono - e soprattutto a cosa non sono più - ora i rally, anche a causa della perdurante, ammorbante e dolorosa assenza della Lancia.

Marchio che - da inno alla presenza, all’attacco, allo spirito e all’energia dirompente e dionisiaca applicata alle corse - è diventato progressivamente un grido strozzato di assenza, di mancanza, di vuoto rimpianto. Parliamoci chiaro, le corse non devono e non possono sopportarte ancora per molto il cratere mortifero che la Lancia ha lasciato volando via chissà dove.

In un mondo delle corse in cui gli scenari sono sempre più addomesticati, i tracciati amputati e le sfide rese meno odissea e più reality show, s’avverte un disperato bisogno di tracce antiche di credibilità, di ricorso a nomi laicamente divini in grado di far tornare magia e sospensione d’incredulità tutte le volte in cui s’accenna a un duello, a un campione o al suo bolide.

La Ferrari sta tornando nell’endurance e questo è un gran bene, perché così facendo viene a colmarsi una lacuna parallela e non più sopportabile. Già, è proprio questo il centro della questione. Ora il processo di rinascita, di ricongiunzione e di ricreazione d’un’epicità condivisa non può non interessare anche il nome Lancia. Lancia da sempre significa - guardando a ritroso a come e a dove se n’è andata -, storie spezzate, lasciate malinconicamente lì, vicende d’amore finite che andavano bene, alla grande e non certo male.

E quando le storie d’amore finiscono mentre stavano trionfando, poi si fanno ricordare per sempre con inguaribile rimpianto, ecco. E allora, ci risiamo, vero, vecchi, inguaribili e ultimi romantici?

La verità è che non solo gli italiani e i race fans ne hanno torturante bisogno, di questo ritorno, ma tutto il mondo delle corse. Perché qualunque rally in ogni parte del mondo è pronto a tornare appetibile, bello e indimenticabile, a patto che ci sia una Lancia in controsterzo pronta a fare la sua parte.

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