L’addio a fine stagione di Seb Vettel ispira queste riflessioni...
E così Sebastian Vettel si ritira a fine stagione. E lo fa con un discorso d’addio pregresso semplicemente meraviglioso, articolato, capillare ed esistenzialisticamente prodigioso. Motivando per filo e per segno il processo mentale e valoriale che lo costrInge e lo ispira a prendere una decisione così amara e allo stesso tempo saggia. La vita è una sola e complessa, inesplorabile nelle sue infinite possibilità ma doverosamente percorribile sulle strade più amate e volute. E la F.1 non è più tra queste, per lui.
Prima viene il tempo da dedicare ai suoi, segue la vita in senso ampio e la possibilità di sperimentare altre e non meno acchiappanti esperienze, da stupendo padre di famiglia marito d’una moglie meravigliosa e papà di tre figli da fiaba. Punto e a capo.
Cosa dire? Anzitutto, rispetto. Immenso rispetto. Per un ragazzo intelligente, per niente scontato, pulito, forte, bravo e onesto. Insomma, una bella persona. E per seconda considerazione, un’analisi che va al di là del personaggio in sé, provando a inquadrarlo nella storia della F.1. Ecco, Dio mio, che strana, la sua vicenda. Debutta da baby con la Bmw-Sauber, quindi sfonda prodigioso in Toro Rosso, monopolizzando il memorabile weekend bagnato di Monza 2008 per poi entrare a far parte del glorioso ciclo Red Bull-Renault con quattro mondiali Piloti consecutivi vinti e altrettanti Costruttori, dal 2010, con quella magica (per la Ferrari agonisticamente tragica) notte di Abu Dhabi, fino al 2013 compreso. Quindi, a inizio 2015, approda alla Rossa col ruolo di neo-Schumi, perché del Kaiser prima maniera ha il blasone, il palmares, la reputazione e anche lo stile poco ciarliero e molto sostanziale.
In quel momento, essendo nato nell’estate 1987, cifre alla mano è il ventisettenne più sensazionale e vincente mai visto in azione al volante di una vettura da corsa, perché alla sua età mai nessuno ha vinto in modo lontanamente e gloriosamente simile.
Da lì in poi, però, tanti sprazzi, qualche bella impresa, una gran generosità e delle belle prestazioni, ma niente d’indimenticabile. Un bel numero di battaglie vinte ma nessuna guerra, ecco. Zero tituli. Forse perché quella Ferrari mica aveva nelle gambe i novanta minuti del mondiale, certo che sì, però anche lui, arrivato per fare lo Schumacher, alla fine mai e poi mai diventa il centro di gravità, il pungolo, il volano e il motore tutt’altro che immobile della squadra, trasformandosi come Michael in allenatore giocatore. Al contrario sembra più subire che gestire la Ferrari che passa da Montezemolo a Marchionne e progressivamente da Arrivabene a Binotto. Tanto che alla fine di lui si ricordano cose belle e anche meno, come la sequela di errori e comportamenti strani, vedi una prima scossa a Baku 2017, con la ruotata a Hamilton che fa elastico, e quindi con epicentro la sconcertante uscita di pista a Hockenheim 2018, quando è in testa sol soletto e finisce la gara sulla ghiaia, minacciato da nessuno e tradito da se stesso.
Poi il resto della permanenza in Ferrari, con successivo addio non tanto gioioso e approdo in Aston Martin, sembrano una sorta di prosieguo di trama su un piano inclinato, che punta, al di là delle prestazioni sempre dignitose assai, invariabilmente a un epilogo volto all’addio, a soli trentacinque anni d’età, mentre Hamilton a trentasette va come il vento e Alonso a quarantuno è convinto che il bello debba ancora venire. Insomma, ragionando col senno di poi, Vettel passa alla storia come il più fantastico bambino prodigio della storia della F.1 e anche come il meno longevo e costante tra i pluriridati, destinato a un declino precoce e a un calo di prestazioni e d’intensità davvero incredibile, se rapportato ai suoi raggiungimenti pregressi nell’era d’oro della Red Bull-Renault.
Peccato davvero. Mai nessuno come lui nella F.1 moderna è appassito così presto, a parte Nico Rosberg che ha smesso su basi, stato psicologico, scelte e motivazioni di tutt’altra natura, comunque ritirandosi di fatto imbattuto. Così a guardarla ora la storia di Seb qualcosa lo insegna. E spiega che non necessariamente uno che parte da supercampione è destinato a restarlo a lungo. Anzi, ci può stare che a un certo punto, senza preavviso, si trasformi lentamente ma costantemente in un onestissimo e ottimo pilota ormai decisamente meno temuto dai rivali e parallelamente sempre più in una brava persona che merita stima, ammirazione e un abbraccio per empatia, cultura, senso dell’autocoscienza rispetto all’era in cui vive e orgoglio nell’appartenenza alla categoria non sempre demograficamente affollata da esseri qualitativamente pensanti.
In fin dei conti, niente pare più strano, in questi ultimi anni, della parabola di Seb, tetracampeao a ventisei anni e a ventotto già in caduta libera verso l’uscita dall’empireo dei top. Proprio in un lasso di tempo in cui la Ferrari l’aveva acquistato, confermato e rinnovato a peso d’oro. Insomma, credevamo d’avere a Maranello un superasso per sempre e invece era solo un grandissimo pilota che il meglio l’aveva già ottenuto, preparandosi a diventare un attivista su temi ecologici, socio-politici e umanisticamente fondanti.
Già. Che strana la vita. Pensavamo tutti che Sebastian Vettel tolto dall’alveo Red Bull potesse insegnare a chiunque a vincere, invece, per quella che si è rivelata la sua umana evoluzione, adesso è diventato ancor più la bellissima persona che è sempre stato, riuscendo - soprattutto col suo luminoso esempio di family e friendly man -, a insegnare a tutti noi a vivere meglio.
Grazie comunque e grazie lo stesso, Bellopampino.
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