Scopriamo l’ultimo superstite dell’era Schumi a Maranello
Rory Byrne compie 80 anni e soffia sulla torta quale unico tecnico al lavoro sull’effetto suolo dal 1978 a oggi. Da quando in F.2 cercava di capire qualcosa delle favolose Lotus 79 dominatrici della F.1, per iniettarlo prima nelle March 782 del Toleman Group, quindi nella Ralt e infine nella prima Toleman monoposto, destinata a sbancare la formula cadetta 1980.
In altre parole, nessuno sul Pianeta Terra ha più viatico, dati e casistica di lui, alla voce effetto suolo, tornato in F.1 dal 2022. E Rory è pure l’unico superstite in servizio, anche se come consulente Ferrari e perlopiù da remoto, del Dream Team Montezemolo-Todt-Schumi-Brawn-Byrne medesimo. Uno capace di attraversare tutte le stagioni del Circus moderno, dalle minigonne scorrevoli ai fondi scalinati, passando per turbo, correttori d’assetto e chissà quante altre diavolerie. Lui c’era e non dormiva. Mai. E spesso vinceva. Sempre più spesso, per la verità. In F.1 ci sono i geni visibili e quelli invisibili. I primi appaiono istrionici, teatrali e fluviali sulla scena. Colin Chapman, Mauro Forghieri e Gordon Murray sono tra questi. Invece, tra color che nella civiltà della megainformazione iperconnessa manco lasciano traccia apparente, v’è Rory Byrne, sudafricano di Pretoria, nato il 10 gennaio 1944 e quindi or ora preso nell’atto di compiere gli ottanta tondi tondi. Byrne può essere riassunto in vari modi, ma uno basta: da Direttore Tecnico ha vinto 7 titoli mondiali Piloti e 7 Costruttori, tutti con Michael Schumacher caposquadra, prima alla Benetton - due Piloti e un Costruttori -, e poi alla Ferrari con 110 Gran Premi iridati messi in berta, 91 dei quali con Michael alla guida, i restanti sparsi tra Barrichello, Irvine, Herbert, Piquet e Berger.
La verità? Non è mai esistito uno come lui, nel motorsport. Vanta una meravigliosa carriera universtitaria, questo sì, con una laurea presa con tre anni d’anticipo, in chimica industriale. E mi fa strano notare che i due tecnici simbolo degli Anni ’80 e ’90, Barnard e Byrne, sono uno perito e l’altro chimico, mica ingegneri in senso stretto. Interessante, vero? Il fatto è che Rory, oltre che appassionato pilota fin da teenager, è uno che sbava per la tecnica applicata alle corse e inizia nella seconda metà degli Anni ’60, in un’era in cui il Sudafrica è l’unico paese al mondo ad avere un campionato nazionale di F.1 parallelo al mondiale. Prova a correre, Rory : «Sul giro secco ero okay, però non tenevo il passo», taglia corto. Dove è un portento, è nella preparazione di un’auto. Qualsiasi. Ha una quota in un’officina e lui, poco più che 20enne, qualsiasi mezzo che entra, dai Maggioloni alle monoposto, lo tocca, rendendolo più veloce. Tanto più veloce.
Nell’ambiente, anche se è giovane e timido, lo guardano con rispetto e su di lui girano più leggende che aneddoti. Una su tutte. A 17 anni diventa campione del mondo di modellini in mini alianti di balsa. Sai come si fa? Costruisci il tuo bel velivolo, lo affini e lo lanci nel vento, contando solo sulla sua capacità di penetrazione aerodinamica. Vince chi lo fa stare in cielo più tempo di tutti. Okay, Rory trionfa sempre, eppure è triste, perché quasi sempre i suoi miniaerei sono talmente perfetti, da restare in aria fino a farsi rapire, per sempre. Se li lancia, sbanca, ma, paradossalmente, li perde. Gli aerei del ragazzo non riatterrano mai più. E i rivali sottolineano un particolare inquietante: i suoi modellini di balsa, a vederli, non hanno niente di diverso dagli altri. Però, alla prova dei fatti, risultano infinitamente equilibrati. Come e perché, resterà un mistero. Lui solo lo sa. Ecco spiegato Rory Byrne. Il suo shining, il genio, ma anche la parte psicomagica, quella quasi incomprensibile.
Rory Byrne non è un rivoluzionario, ma un evoluzionista. Mai s’atteggia a massimalista ma sempre a riformista. «Sì all’evoluzione, guai alla rivoluzione» è il suo mantra. Se gli altri geni della F.1 hanno la scintilla dell’invenzione, il bagliore gnoseologico agonstiniano, il cortocircuito, la folgorazione dopo la quale nulla è più come prima, Byrne no. Insomma, Forghieri mette l’ala in F.1, perfeziona a modo suo il 12 cilindri piatto, sublima il cambio trasversale, ne studia più di mille, Chapman introduce la monoscocca, la guida sdraiata, il motore portante, l’effetto Venturi, Murray s’esercita con la sezione trapezoidale, i radiatori a sfioramento, il ventilatore, la sogliola e Dio sa cosa, Barnard crea la F.1 tutta in carbonio e mette il cambio al volante. Byrne invece non innova apparentemente un bel niente.
Eppure è con lui che Senna rischia di vincere il suo primo Gp, è con lui che Schumi li vincerà tutti, i suoi, ed è con lui che la Ferrari cambierà pelle, mentalità, approccio, diventando il team con la più lunga, intensa e corposa striscia vincente mai vista nel Circus iridato. Solita storia. Byrne non inventa niente, ma sublima tutto. È puro postmoderno racing.
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