In F.1 le cose sono cambiate anche per quanto riguarda la parte finale della carriera di un pilota
C’era una volta il grande campione che pronunciava l’addio alle corse. Tutti i sovrani iridati dell’era ruggente F.1 erano ricordati sostanzialmente per due episodi chiave: l’impresa più bella e il momento dell’abbandono.
Che in certi casi addirittura coincidevano. JM Fangio al Nurburgring 1957 vinse il quinto titolo mondiale e allo stesso tempo disse chiaro che da lì in poi non avrebbe mai più preso gli stessi rischi, di fatto continuando ancora un annetto a singhiozzo nei Gp, in pratica da prepensionato.
Jackie Stewart passò alla leggenda per aver detto basta all’apice, a 34 anni, dopo le qualifiche del Gp Usa 1973 al Glen, subito dopo la morte per incidente del compagno e amico Francois Cevert, fermandosi addirittura a 99 Gp disputati, perché non aveva più cuore di farne 100.
Hunt e Scheckter si stopparono a un anno di distanza, rispettivamente a 32 e 30 anni, nel biennio 1979-1980, davvero giovani, con quest’ultimo che disse una frase la quale da sola è il manifesto di un’epoca: «Correre è pericoloso. Accorcia la vita. Non è come il tennis, laddove se non sei più il numero uno puoi continuare ancora per anni, giusto per rimpinguare il conto. No, in F.1 se qualcosa va storto t’ammazzi, e rischiano tutti uguale, tanto il primo che l’ultimo del circo. Quindi, visto che non sento più le motivazioni per vincere, smetto per sempre».
Pure per Lauda fu facile dire basta, tanto che smise due volte: La prima nel 1979 - era un periodo fertile per i grandi addii -, dicendo: «In fondo è da cretini girare in tondo per gran parte della propria vita». Poi tornò, vinse un mondiale in più per mezzo punto e disse basta per sempre, a 36 anni, a fine 1985: «Ora posso pensare al resto della mia esistenza».
L’ultima generazione dei grandi ritiri fu quella della nidiata di Prost, Mansell e Piquet, ai quali generazionalmente potrebbe essere aggiunto Senna, se non fosse stato così sfortunato da andarsene il 1° maggio 1994. Di lui non sappiamo come e quando avrebbe smesso, ma è noto, per sua stessa ammissione, solo il penultimo passo: «Prima di smettere, andrò a dare una mano alla Minardi, magari contribuendo a regalare qualche bella soddisfazione a Gian Carlo».
Piquet lasciò la F.1 a fine 1991 perché ormai fuori mercato e surclassato dall’arrivo di Schumi in Benetton. Quanto a Prost, chiuse da tetracampione, a fine 1993, Mansell si stufò, 42enne, a inizio 1995, perché ne aveva abbastanza. Così come Damon Hill, nel 1999, da quasi 40enne. Ma da lì in poi, addio all’addio. I grandissimi smettono di smettere e pure quelli piccolini.
Mika Hakkinen esce dalla F.1 a inizio terzo millennio dicendo che è solo un periodo sabbatico, poi quasi ci ripensa, si dà al DTM ma mai dice per sempre la parola basta. Jacques Villeneuve pure, Schumi lo fa a fine 2006, ma dopo quattro anni ci ripensa e corre tre stagioni con la Mercedes, ottenendo solo un terzo posto a Valencia. Lui continuerebbe ancora, ma la Stella a Tre Punte al posto suo vuole Hamilton e così, controvoglia, malvolentieri e senza nessun gusto di gettere la spugna, è costretto a farsi da parte. Alla conferenza stampa di Suzuka 2012 dice triste: «Sto per fare un annuncio che mi toglie un peso». Poi la sfortuna decide il resto, sennò chissà.
Raikkonen è stato un altro ritornante, quindi ha detto basta a fine 2021, a 42 anni, per consunzione. E Button? Lascia la F.1 ma torna nel 2017 da riserva di Alonso, il quale la smette l’anno dopo salvo tornare ed è ancora lì, laddove l’altro superpluriridato pari a 7 titoli con Schumi, Lewis Hamilton, ha un pluriennale firmato con la Ferrari per cercare di vincere oltre i quaranta.
E Vettel? S’è mezzo riproposto in giro e magari s’accorderà per correre a Le Mans, sfidando Button, possibilmente sullo stesso modello di Porsche 963, privata o meno.
Ma guardiamo nel mucchio, lasciando stare le star. Daniel Ricciardo è stato messo a piedi a fine 2024 dopo che con una squadra o l’altra delude dal 2021, avendo guadagnato nel frattempo 84 milioni di dollari per vincere un Gp, con la McLaren, in una Monza che fu.
Valtteri Bottas, già vicecampione del mondo in Mercedes, è stato lasciato libero dalla Sauber-Audi dopo anni ben remunerati di quasi nulla, salvo esser ripescato come terzo pilota da Toto Wolff, a far da panchinaro a Russell e ad Antonelli.
Insomma, qua non smette più nessuno. Tutti si ricollocano, ci ripensano, si riposizionano. La verità è che le crisi di coscienza di una volta non esistono più. Le corse sono addolcite, addomesticate - e meno male, per certi versi -: ma il toro ormai ha le corna corte e non infilza più nessuno.
La carriera di un pilota di F.1 medio-buono è potenzialmente semi-infinita e ha il fatturato di una media industria a rilevanza internazionale, quindi guai tirare giù la saracinesca.
L’unico vero addio pronunciato nel corso degli ultimi dieci anni - e di questo gliene va reso pieno merito -, è quello di Nico Rosberg, addirittura da fresco numero 1 neoiridato, a fine 2016. Lui sì che, a un certo punto, si è detto e ci ha detto, semplicemente, come ai vecchi tempi: ciao, stop, sorry, io preferisco vivere.
Parlo di queste cose con un conosciuto team manager di F.1 e costui mi risponde, premettendo di voler restare rigorosamente anonimo: «Quello che dici è verissimo. E, aggiungo, purtroppo. Le corse e i guadagni ormai sono sicurissimi entrambi e i piloti di fatto non smettono più per decisione loro. Poi, è vero, nel 2025 avremo un terzo della F.1 fatta da ventenni, ma per fargli spazio diversi di noi sono stati costretti a tagli spiacevoli, a mancati rinnovi anche dolorosi, perché qui, sì, in effetti, non molla mica più nessuno. E certe volte passiamo noi per tagliatori di teste solo perché alcuni piloti non capiscono quando il gioco è davvero finito». Non lo capiscono o non gli fa più comodo di capirlo.
Anni fa pensavo di scrivere un libro dedicando un capitolo ciascuno ai commoventi tramonti dei grandi dell’era ruggente, all’ultimo Gp di coloro che lasciavano per sempre: che so, all’ultimo giro di Graham Hill a Silverstone 1975, sulla Embassy-Hill, senza casco, con la gente in piedi che piangeva per e più di lui. O a Piquet che in Australia 1991 chiede di poter fare un ultima tornata di rallentamento, per gustarsi intensamente gli ultimi struggenti chilometri di una vita in F.1
Ma per descrivere l’era moderna, attuale e futura, potrei scrivere un solo rigo, il quale, citando un qualsivoglia maturo e quasi bollito pilota F.1 che contratta col suo Team Principal, reciterebbe più o meno così: «Dotto’, nun faccia scherzi, eh, me lasci almeno ’na giacca a vento e un cococo da quarto pilota, che tengo famija…».
Altroché, non ci sono più i ritiri di una volta.
Aridatece quelli che sapevano divinamente rischiare correndo e, anche e soprattutto, smettere di farlo al momento e nel modo giusto.
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