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Il capo di Hamas e il Gran Premio del Qatar

Ci si domanda se sia giusto andare a correre a Losail in una nazione che ospita terroristi e calpesta i diritti umani

Il capo di Hamas e il Gran Premio del Qatar

Stefano TamburiniStefano Tamburini

1 ago 2024 (Aggiornato alle 17:32)

Era così irraggiungibile e difficile da prendere il capo dell’organizzazione terroristica Hamas? Irraggiungibile no, protetto sì. Ismael Haniyeh era al riparo in Qatar, protetto dall’emiro. Ed era lì anche lo scorso 7 ottobre, nel giorno degli attacchi a Israele, proprio mentre Max Verstappen conquistava a Losail il suo terzo titolo mondiale.
Lo avevo scritto su Autosprint nel numero 42 del 17 ottobre 2023 in un’inchiesta dal titolo “L’afrore dei soldi: la F.1, il Qatar e l’orrore di Hamas”.  Vi avevo raccontato come Haniyeh si trovasse a Doha, a pochi chilometri dal circuito di Losail, dove Max Verstappen si apprestava a vincere il suo terzo titolo mondiale. Era nel suo ufficio con tanto di insegne in un grattacielo della capitale. Era lì per schiacciare l'ideale bottone che dava il via agli attentati e a seguire sul maxi schermo l'evoluzione della macelleria. Era in Qatar perché Hamas prende soldi dallo stesso bancomat che finanzia la Formula Uno, il calcio e gran parte del nostro sport di élite. E l’emiro che con una mano finanzia l’orrore con l’altro si tiene buono l’occidente utilizzando soprattutto il grande sport come anestetico per le coscienze.

Insomma, il covo del Capo dei Capi dell’esercito del terrore che sta facendo mattanza in Israele è lì, da qualche parte, in quel panorama avveniristico che si apre dietro a ogni curva lungo la trentina di chilometri di strada che dall’aeroporto di Doha conduce all’autodromo di Losail. Quelli che hanno organizzato l’ultimo atto di quella che papa Francesco ha definito una “guerra mondiale a rate”, vivono alla luce del sole in Qatar, uno dei Paesi Canaglia tra Mar Rosso e Golfo Persico che si stanno facendo largo nello sport a suon di vagonate di denaro.
Ed è qui che l’afrore dei soldi si fa così intenso da rendere fragile anche la barriera di pelo sullo stomaco che i Capi della Formula Uno ormai stanno usando per giustificare ogni orrore nel nome di quei Giochi (sporchi) di Potere che hanno portato il motorsport ben oltre l’invereconda complicità con l’abominio.

Sì, perché se è già grave chiudere gli occhi, osservando quell’ideale distesa di milioni che esce da tasche macchiate di sangue di operai schiavizzati e di diritti violati, adesso è devastante ignorare l’evidenza dell’orrore anche per tutti quelli che – pur sapendo e facendo finta di niente – continuano a portare la Formula Uno, il Motomondiale, il grande calcio e tanti altri sport in queste terre ambigue, fintamente amiche e pronte a tradire nel nome di un’ingordigia di denaro e di potere sempre più insostenibile.

E poco conta che l’emirato del Golfo non sia coinvolto direttamente con Hamas, che non offra sostegno militare, logistico o di spionaggio e controspionaggio. Formalmente il Qatar mette a disposizione un sostegno alle famiglie palestinesi più indigenti della Striscia di Gaza. Ma quei 100 milioni che ogni mese invia ad Hamas di fatto servono anche per pagare gli stipendi ai funzionari dell’organizzazione terroristica. E il Capo dei capi, Ismail Haniyeh – quello appena ucciso a Teheran –, proprio mentre le monoposto sfrecciavano a Losail per la gara sprint del sabato, era nel suo ufficio di Doha di fronte a un maxischermo sintonizzato sulla tv qatariota Al Jazeera che mandava le prime immagini dell’attacco. Ed esultava al telefono con i propri uomini, impegnati dall’alba sul campo di battaglia.

Su Autosprint avevo raccontato tutto questo con dovizia di particolari e poi lo ho fatto anche in un libro dal titolo “Beati, dannati e sogni truccati” che ha come sottotitolo “Lo sport tra favole e malaffare”, pubblicato da Edizioni Il Foglio.

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