Rivalutiamo il reale, please

Rivalutiamo il reale, please

La proliferazione di simulazioni, game e riproduzioni di sfide sta creando sempre più una perdita di consapevolezza della sostanziale differenza tra immaginario e realtà

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01.06.2020 14:12

Dalla F.1 all’Indycar, le sfide virtuali stanno ottenendo sempre più attenzione, consenso e emulazione. Creando una polarizzazione positiva sui piloti più amati che altrimenti sarebbero ancora più distanti dalla gente, in un periodo mondialmente disgraziato e inatteso come quello che stiamo vivendo.

E poi c’è pure dell’altro. La notizia, non fosse serissima, farebbe solo un po’ ridere. Il pilota Daniel Abt nei giorni scorsi è stato licenziato dall’Audi, per la quale correva con un certo successo da anni in Formula E, perché durante una delle competizioni virtuali che in tempo di virus surrogano quelle reali, s’è fatto sostituire di nascosto, commettendo un’irregolarità e, soprattutto, non comportandosi come doveva. Okay, ci può stare. Magari la spiegazione è questa ovvero si cercava solo la scusa per rompere un rapporto per altre cause e diversi futuri scenari, non importa.

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Il punto è un altro. Mai nella F.1 degli Anni ’70 e ’80 e tantomeno in qualsiasi altra categoria praticata da persone a pollici opponibili e dotate di un minimo di discernimento, avrebbero mandato a spasso un pilota sol perché aveva bigiato una corsa di macchinine. Mai e poi mai la carriera o l’umana avventura di uno che per professione, passatempo, ardire o vizioso vezzo rischiava la pelle quasi tutti i fine settimana, sarebbe dipesa dalla sua adesione o meno a un giochino. Perché c’era una chiarezza di valori, un rispetto per il concetto di Rischio e una condivisione assorta dei rituali, dei contesti e dei prezzi da pagare legati al significato profondo di Motorsport, che non era né praticamente né filosoficamente possibile commistione o confusione tra reale e virtuale.

Tra concreto e immaginario. Negli Anni ’70 e ’80 a livello di simulazione elettronica la tecnologia era ancora così agli albori, che i risultati non potevano essere che ancora ingenui ed elementari, quindi di fatto, le tentazioni di mondi alternativi o dimensioni parallele in grado di riprodurre la realtà, di fatto manco c’erano. Però, a ben guardare, i leggendari modellini elettrici della Polistil - e lo dico per fare un esempio di scuola -, erano di una simpatica e acchiappante verosimiglianza, le piste possedevano un fascino particolare, c’erano guard-rail, cronometri digitali e tutto un climax, un’atmsofera e un fascino nelle competizioni slot che si sprigionavano da quel meraviglioso gioco, tali da rappresentare uno spettacolo ben più tangibile, annusabile e reale rispetto alle simulazioni.

Tanto che l’Autosprint di quei tempi dava tanto spazio e importanza a quella micro-civiltà. E a ragione. Anzi, in fondo, quelle delle piste perlopiù Polistil - anche se non lo potevamo ancora sapere - erano a tutti gli effetti delle gare di Formula E a realtà diminuita solo quantitativamente. Per il resto, tutto era terribilmente credibile ed emozionante, per ragazzi e non solo. E qui dal teorico scendo sul pratico nonché sull’autobiografico e dico che a inizio Anni ’80, quand’ancora eravamo matricole al liceo, col mio gruppo di compagni di scuola, una decina, ci radunavamo nella mia soffitta organizzando tumultuose sfide all’ultima staccata, unendo ben due piste e creando un circuitone che la Nordschleife del Nurburgring, lévate.

Ricordo che la mia macchina era la Wolf Wr3 di Jody Scheckter, mentre tra le altre c’erano la Brabham Bt46 di Lauda, la Ligier Js9 di Laffite e così via. E un bel giorno il nostro ambiente fu scosso da un vero e proprio terremoto, quando uno dei nostri si presentò in gara con la Renault di Jabouille dotata di calamita sullo scivolo: soluzione, questa, che incollava letteralmente l’automobilina ai binari metallici della pista, moltiplicando la velocità in curva. Cioè, a modo nostro, avevamo (ri)scoperto l’effetto suolo e il trauma fu grande per tutti. Perché, proprio come il paddock della F.1 di pochi anni prima, improvvisamente ci ritrovavamo con un parco macchine da buttare...

A differenza della F.1 del 1978, noi fummo più seri: vietammo senz’altro la calamita, mettemmo la Renault fuori regola e salvammo le gare in soffitta per almeno un paio d’anni. Ma, attenzione: MAI e POI MAI, nemmeno nel giorno e nell’attimo della sfida più memorabile tra noi, ci passò per l’anticamera del cervello che stavamo a fare qualcosa di diverso da un innocente e meraviglioso GIOCO. Non v’era nulla di serio, in tutto ciò che stavamo facendo, anche se guai dare l’impressione che stessimo scherzando... Avevamo chiarissima la differenza tra gioco e Sport. Forse perché, con quel minimo d’infarinatura liceale, c’era lampante la distinzione del vecchio Ernest Hemingway, il quale solennemente sanciva con imperituro valore: "Ci sono solo tre Sport: il combattimento dei tori, le gare automobilistiche e l’alpinismo. Il resto sono semplici giochi". E tutti noi sapevamo altrettanto bene che il nostro non poteva che essere solo un gioco del gioco, una riproduzione resa esaltante soprattutto dalla lucentezza dei nostri occhi nel praticarla. Punto. Fine.

Ma il senso della distanza, della consapevolezza, e, permettetemi, della sacralità dal e del motorsport vero, coi suoi rischi, i suoi azzardi e i suoi prezzi, anche definitivi e tutt’altro che rari, MAI, in nessun momento ci avrebbe abbandonato. Ecco, posso dirlo? Ho come l’impressione che in pieno 2020 questo senso di consapevolezza non ci sia più. E per varie ragioni e su più piani. L’ingentilimento castrante dell’automobilismo ha ammosciato e desacralizzato tutto. Per la paura di farsi la bua, le corse reali, dalla F.1, a cascata, fino alla più propedeutica delle categorie, si sono mediamente snaturate, svuotate e ammosciate nella sfida - sia a livello di macchine che di circuiti - tanto da diventare (salvo, ahimé, eccezioni) sempre più esercitazioni asettiche e mediamente prive o quasi di rischi.

Parallelamente, lo sviluppo delle simulazioni a livello professionale, presenta possibilità da parte delle Case di riproduzioni fedelissime, dal costo ultramiliardario e tali da rendere in teoria l’immaginato non meno affascinante, fedele e attendibile del vissuto. In più il mondo dei giochi virtuali - che attenzione, va detto e ripetuto: sono pur sempre totalmente altra cosa dalle simulazioni professionali in senso stretto -, ormai offre percentuali meravigliosamente motivanti di competizione, approssimazione attendibile e pressione psicologica. Tali da rendere i migliori tra i gamer dei personaggi di certificabile, riconosciuta e invidiata classe a livello mondiale.

Di fatto, però, tutto questo sta sfociando in qualcosa di totalmente privo di senso. Cioè, la progressiva perdita di consapevolezza della differenza fondante e decisiva tra REALE e VIRTUALE. Mai una Indy 500 nel tinello di casa sarà uguale alla classicissima dell’Indiana, perché dal vivo il perfido muro della curva 3 prima o poi lo sentirai, mentre il muro del tinello non lo assaggerai mai. E allora, ecco che il licenziamento di Abt, al di là dei contesti specifici e dei risvolti del caso nei quali non devo e non voglio entrare, lancia un grido d’allarme serio. Perché se ciò che accade nel virtuale finisce per avere implicazioni automatiche e conseguenze dirette nel mondo reale, significa che è ora di far trillare non solo un campanello d’allarme, ma anche di suonare a distesa un bel campanone.

Di questo passo, la differenza e lo stacco tra i piloti veri e i campioni reali da quelli immaginari e in poltrona non esisterà più. Perfino a prescindere dai codici morali. Ben presto - se già non è così - il miglior gamer del mondo sarà assai più stimato del pilota che parte in ultima fila a Le Mans, con la differenza che il secondo ai platani di Tertre Rouge ci va comunque vicino e i 350 Km/h sull’Hunaudieres li ha tocca rischiando il dechappaggio, mentre il giocatore, al massimo, si scaglia l’unghia dell’alluce se gli cade addosso la bottiglietta della gazzosa.

Dai, chi gioca e sa giocare merita immenso rispetto, ma, un momento, non esageriamo. Le corse vera sono un’altra cosa. Ribadiamolo. Riconosciamolo. E rispettiamole. Ristabiliamo la scala di valori, sennò di questo passo, andando di metafora, un aficionado veterano di PornHub vale Giacomo Casanova e un avido lettore di Corna Vissute vanta esperienze non meno tumultuose di Patrick Dempsey.

Per cortesia, torniamo ad avere rispetto per il nostro stupendo, meraviglioso, vero, dolce e crudo, carezzevole e pericoloso, maledetto e benedetto Sport. E, soprattutto, riacquistiamo la salvifica consapevolezza che qualsiasi sua riproduzione elettronica e in vitro, perfino quella più fedele, nulla ha a che vedere esistenzialmente con esso. Smettiamo di confondere la gestione del Rischio con l’abilità, i giochi con lo Sport vero e di scambiare la torrida passione con le pugnette su internet.


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