Nel terzo millennio l’Energy Dream Team sta dimostrandosi il solo in grado di dar vita a due cicli vincenti rigerendandosi. Da Vettel a Verstappen, da Renault a Honda, sempre nel segno di Newey & Marko.
Ho come la sensazione che si parte dal Red Bull Ring con in tasca un dato piuttosto epocale che sarà anche bene sottolineare, per evitare di misconoscerlo. No, dico, ma l’avete visti Verstappen e la Red Bull medesima? Okay, giocavano a casa loro, la pista che sorge a Spielberg li ha visti vincenti quattro volte nelle ultime sei in cui s’è corso, tra Austria e Stiria poco cambia, però magari dietro questa impennata che stanno dando al mondiale e alla F.1 c’è anche altro: non tanto e non solo l’aggancio e il superamento della Mercedes, quanto qualcosa di più e d’assai diverso. Occhio, perché alla Red Bull in questo momento sta riuscendo una prodezza che ha molto più valore e assai più respiro di una singolare ed episodica fuga vincente che rischia di regalarle, se tutto va bene, due mondiali, ovvero quello Piloti con Max e il Costruttori grazie anche alla power Unit Honda.
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No, qui c’è in ballo tanto, tantissimo di più e la definirei la nascita di un nuovo ciclo vincente, cosa che da un punto di vista politico, tecnologico e strategico vale molto più degli allori incamerabili quest’anno. Rappresentando in verità una vera e propria ipoteca sull’avvenire, una promessa e una premessa di possibile supremazia e anche la conferma che siamo di fronte a un evento tale da poter finire direttamente sui libri di storia, senza neanche passare per i foglietti volanti della cronaca. Perché se è vero che l’inizio del terzo millennio in F.1 è stato ed è il periodo dei Costruttori più puri, forti, mondialmente radicati e economicamente più fluviali nelle spese e voraci nelle motivazioni - Case volute e finalmente attirate e messe in scena da Bernie Ecclestone che da almeno quattro decadi sognava uno sviluppo così avvincente per lo show e le sue ampie tasche -, ebbene, pensando alla Red Bull siamo di fronte a un fatto che proprio in questa estate 2021 rischia di diventare assolutamente storico e caratterizzante. In altre parole, fino a oggi dal 2000, in diversi erano riusciti a segnare un ciclo vincente in F.1, dalla Ferrari di Michael Schumacher in poi.
Strano, improvviso, meritato ma quasi episodico l’altro titolo Rosso con Raikkonen al volante, pur sempre con Todt in plancia di comando, ma talmente anomalo nell’anno dell’esplosione della spy story e della lotta fratricida tra Hamilton e Alonso in casa McLaren, da sembrare più un trionfo propiziato dall’harakiri altrui che non un premio per un’indiscutibile supremazia sul campo...
E l’anno dopo, nel 2008, quando Felipe Massa aveva mostrato sul campo di meritare un successo iridato sacrosanto, ci si mette il finalone del GP del Brasile a far morire in gola il grido di gioia trasformandolo in disperazione per il sorpasso in extremis di Lewis Hamilton a Timo Glock. Da lì, a parte la BrawnGp con tutte le particolarità e le irripetibilità del caso da film, la Formula Uno è segnata dal ciclo quadriennale della Red Bull-Renault - che sarebbe combinazione regina in realtà da quattro e mezzo, perché le RB in realtà sono al top da metà 2009 quando la stessa Brawn si mette a gestire il vantaggio conquistato nella prima parte del campionato -, e da quello successivo turboibrido e durato a oggi sette anni filati della Mercedes con Hamilton e Rosberg iridati più Bottas a fare da nobile scudiero.
In poche parole, andando alla radice della questione, nel terzo millennio la Red Bull si sta dimostrando a oggi, potenzialmente eh, perché questo mondiale è tutt’altro che deciso ma in pieno divenire, anche se le indicazioni chiare e cogenti di e su chi può vincerlo certo non mancano, dicevo, la casa dell’Energy Drink e Dream si sta evidenziando come la prima, l’unica e la sola nell’era in corso capace di poter dare vita a due diversi cicli vincenti. Cambiando pilota, sistema e Casa fornitrice del motore, regolamento, quindi di fatto ripartendo totalmente da zero ma riuscendo perfettamente nello scopo - almeno per quello che risulta fino ad oggi, dopo la duplice trasferta austriaca che lancia segnali ineludibili sul piano della classifica mondiale e soprattutto sui valori delle forze in campo. Ciò sta a significare - a prescindere da come andranno le cose dal 2022 in poi con la rivoluzione tecnica annunciata - una cosa semplice e nello stesso tempo da sottolineare duecentomila volta. Checché se ne dica, nella Formula Uno sempre più voluta prima da Bernie e poi dalla Fia come il paradiso terrestre e nobile delle grandi Case, Red Bull è la sola entità capace recentemente d’affermarsi e poi di rinnovarsi rigenerandosi e quella tra le vincenti che nulla ha a che fare con la produzione di serie e il mercato dell’automobile in senso lato.
Già. Perché la Red Bull è solo lo sfogo sublime, agonistico e tecnologico del boss del marchio Dietrich Mateschitz che un bel giorno conosce in vacanza un ex pilota di F.1, ovvero Helmut Marko, al tempo buon manager di F.3000, e gli dà da gestire quello che in breve tempo si afferma come un impero sfrecciante. Delegandogli verticisticamente gran parte del potere e delle scelte da compiere che negli anni si rivelano assolutamente in linea con concetti quali efficacia, perfezione e redditività motivazionale. Buffo, vero? Nel mondo del Circus in cui si confrontano i Costruttori più grandi alla fine, a oggi, il solo capace di vincere, convincere e ritornare davanti è proprio, pensa te, una fabbrica di lattine riempite da una bibita energetica. E ciò che distingue la squadra di Marko, Horner e Newey è proprio l’essere la più verticistica e individualistica di tutte, la meno politica e ministeriale nella gestione, tanto da sembrare a più riprese perfino umorale. Cinque anni fa, in Sicilia, alla Targa Florio numero cento, parlai a lungo con Helmut Marko, che aveva appena preso la decisione (subito vincente) di mettere il baby Max Verstappen in Red Bull dalla Toro Rosso.
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Ebbene, Marko a Floriopoli in un pomeriggio bello, intenso ma lunghissimo, che tanto tempo lasciava alle confidenze e alle chiacchierate all’ombra, mi disse bello sincero e chiaro: "Non sto lavorando per cercare di vincere qualcosa ma pensando a un futuro diverso e importante in cui Red Bull può e deve tornare al top non per una congiuntura favorevole, ma con un grande progetto, un uomo su cui puntare e una tecnologia che sappiamo già che saremo in grado di produrre. Qui non ci stiamo giocando una o due vittorie, ma, se facciamo le scelte giuste, altre possibili stagioni di trionfi. E io voglio dimostrare che non solo eravamo quelli giusti per vincere ma anche, in proiezione, per rivincere. Quella che ha il teenager Max Verstappen al centro è una grande sfida, un nuovo grande progetto che non è un sogno solo perché io penso che potrebbe diventare realtà entro non molto tempo. In questo momento - correva il 2016 - devo solo capire meglio le differenze tra Max e Daniel Ricciardo, perché sono entrambi straordinari, ma poi a fare la differenza sarà l’evoluzione di entrambi. Ora so che sono due futuri iridati e sono pronto a scommetterci su, però in futuro capirò di preciso chi la realtà indicherà come il nostro uomo. Vedremo, ma, se tutto va bene, tra qualche anno leggerete una grande storia e forse sarà la nostra. La storia di quelli che vinsero tanto, tornarono per qualche anno un po’ più indietro, ma poi si riaffacciarono alla grande, là davanti, a dimostrare che nulla accade per caso".
A Rilettere e ripensare adesso, per ciò che sta vivendo la F.1 in questa infuocatissima estate, a queste parole c’è da farsi venire i brividi. E penso anche che tutto ciò sta avvenendo - e non è ancora certamente avvenuto, perché, ovvio, la lotta con la Mercedes è in corso e il verdetto aritmeticamente ancora apertissimo -, con al timone tecnico Adrian Newey, un uomo che giusto trenta anni fa dava vita alla Williams Fw14 di Nigel Mansell e ora è di nuovo al top, mostrandosi il genio più longevo e strabiliante nella storia moderna della massima formula. E anche il più solista, individualista e autocrate degli altri, pur sapendo lavorare in una meravigliosa equipe. Con tutto questo, la fuga iridata, comunque vada, di questa Red Bull esalta una volta di più l’efficacia maggiore della gestione sportiva monocratica su quella paraministeriale delle grandi squadre, delle grandi individualità anteposte alle logiche dei consigli di amministrazione e di pochissimi e fantastici soggetti ipervincenti preferiti ai grupponi litigiosi e politicizzati di intercambiabili e bravissimi mestieranti.
In questa Red Bull che cambia, trasmuta, sa rinnovarsi e rinunciare a qualcosa - perfino alla Honda in chiave 2022, imparando pure a costruirsi motori -, ci vedo tanto un segnale di vittoria dell’uomo sul sistema o, comunque, un inno al microsistema agile e geniale contrapposto alle megastrutture, alle supercompany orizzontali e alla corporation elefantiache. Forse Red Bull è tornata al top rigenerandosi - come fece la Renault prima, a metà Anni ’90, con Schumi e poi con Alonso sempre by Briatore, in realtà - perché non solo sa costruire macchine, ma soprattutto Uomini. Pochi e specialissimi. Mettendogli le ali.
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