Il podio conquistato in Qatar dà luce al suo futuro in F.1 e a una carriera stupenda
A parte le epopee recenti, noiosette e monocordi dei vincenti dell’automobilismo monopolista, ossia di Mercedes e Toyota in F.1 e nell’endurance, uno dei pochi capace di raccontare una grande storia di carriera e di vita in questo Motorsport d’oggi, è Fernando Alonso. Il quale col podio conquistato in Qatar salva la stagione e spiega al mondo d’essere tornato in Formula Uno non certo per un pugno di dollari o per bere il bicchiere della staffa, ma semplicemente perché in lui il sacro fuoco della classe non è estinto e arde al suo interno assieme alla rabbia, alla passione e allo spirito indomito dei giorni migliori. Tornare a stappare una boccia dopo 109 Gran Premi di astinenza dai liquidi celebrativi - alcoolici o meno per esigenze di rispetto della religione del luogo - e poter contare su una distanza di diciotto anni, sette mesi e ventinove giorni dalla prima alla più recente feste di fine gara in F.1, significa essere e rappresentare molto di più di un grande pilota. Incarnando anche la figura del testimone del tempo, del personaggio capace di bucare epoche, decenni e cicli tecnici e agonistici e persistere, resistere e insistere, sfoderando il sorriso di un quarantenne che sembra avere addirittura più entusiasmo del ventenne che fu.
Il carattere del cavolo di Alonso ormai è noto a tutti. A nessuno sfugge l’egomostro che è stato, a partire dall’era d’oro della Renault di Briatore, quello che si sente il superman delle corse e che poi, inserito in squadre più complesse e meno monegamiche, sarà pure campionissimo ma prima o poi se la prende col team, col team mate e pure col custode del circuito se le cose non vanno come dovrebbero andare, mandando tutto o quasi tutto in caciara. Ecco, ciò è noto e arciclassificato. La McLaren di Dennis e la Ferrari di Montezemolo in lui e con lui hanno goduto e sofferto quel suo essere antisistema, non irreggimentabile, sostanzialmente indomabile e, prima o poi, guastatore oltre che ribelle eiettabile e eiettato, da ultima proprio dalla McLaren della sfortunata via crucis con le power unit Honda. Insomma, se ti metti Alonso in casa, perlomeno il Fernando in fascia d’età 25-35, poi devi essere pronto a sentire strilli in condominio o a veder volare qualche straccio all’assemblea, ben sapendo che non ci sarà pace tra le mura fino a che non se ne andrà con un ruggito e un rogito.
Però, però però. Però se c’è stato un campione che dopo i Raikkonen e i Massa 2007-2008 ci ha tenuti incollati alla Tv sfiorando il mondiale con la Ferrari, quello è stato Fernando Alonso. Okay, ad Abu Dhabi 2010 non avrà superato Petrov e in Brasile 2012 magari poteva approfittare di più dei guai di Vettel nella prima parte di gara, però, dai suoi tempi a oggi, non c’è più stato un ferrarista capace di portare il Cavallino Rampante così vicino all’iride. Questo è un fatto. E risulta difficile, ma difficile tanto-tanto, pensare che un altro di quell’epoca al posto suo ci sarebbe riuscito. E anche dopo, nessuno in F.1 sa portare colore, calore, passionalità e cuore oltre l’ostacolo tanto quanto Matador. Come quando, ai tempi della McLaren-Honda “Gp2 engine”, si ritira a Montreal, scende di macchina e va ad abbracciare una tribuna intera di spettatori, come avrebbe fatto Paul Anka in concerto mentre canta “Diana”. Roba che non s’era mai vista, perché il crowdsurfing Hamilton lo fa coi suoi devoti di stretta osservanza (in era pre-Covid), mentre Fernando è il tipico supercampione che qualsiasi appassionato vorrebbe abbracciare, perché simbolo ecumenico e ogni tempo di una F.1 che non c’è più e allo stesso tempo bel testimone di un Circus che c’è ancora. Perché l’Alonso che riparte da zero e va a rischiare la pelle e la faccia alla Indy 500 è uno che non si può non amare, così come è degno di affetto quello che va vicino al trionfo al debutto nella classicissima dell’Indiana e poi al secondo tentativo manco si qualifica, causa un team che lévate, e al terzo arriva nella pancia del gruppo, perché dove vai se l’Andretti Motorsport non ce l’hai. E poi l’Alonso plurivincitore della 24 Ore di Le Mans, iridato dell’endurance, rookie dakariano, Michael Vaillant de noantri che corre ormai ovunque, con chiunque e comunque, nel disperato e disparato tentativo di spiegare al mondo che si può e si deve essere grandi anche a prescindere dalla F.1 e dai suoi top team che mai e poi mai lo riprenderebbero.
Insomma, il discorso è chiaro: ora come ora il quarantenne delle Asturie è l’elemento più antisistema dell’intero mondo della F.1. Mercedes non lo vorrebbe neanche per scherzo, Red Bull guai mai, la Ferrari pure, quindi, a conti fatti, lui sa benissimo che per correre non può sperare in niente di meglio che l’Alpine. Consapevole che, da qui all’eternità, non gli daranno mai più una di quelle monoposto corporation-oriented & born towin, dovendosi accontentare di roba buona e decente ma mica da gran gourmet. Pagnottine, ecco. Non importa. Per mettere tutto a posto, per dare un senso a un ritorno, a un’avventura in un team strano e debuttante anche se antico di dna, ci voleva pure un colpo d’ala, una dimostrazione di forza ed essenza ben a ldi là della resistenza e della resilienza mostrate in Ungheria nella difesa su Hamilton e nella protetta vittoria del compagno di squadra Ocon.
Sì, ci voleva una prova d’orgoglio, di dignità ma anche di capacità allo stato puro, mista a spina dorsale al titanio e a coglioni d’acciaio e Fernando questa dimostrazione, al fine, riesce a darla nel Gp del Qatar. Dopo che, a parte l’inizio di stagione tutto d’ambientamento, s’era messo a girare sistematicamente più veloce sul giro secco del campagno di squadra Ocon che ha la metà dei suoi anni. Ecco, adesso, dopo il podio di Losail, tutto acquista un senso. E splende di narrazione pura, di storia che torna bella, di vicenda che inorgoglisce tutti gli appassionati dello sport del motore. Perché Alonso, preso financo in tutte le sue componenti cronologicamente sfoggiate in questi anni, può essere considerato talentuoso, vincente, odioso, afflitto daipetrofia dell’io, rissoso, carissimo, irascibile, ma anche coraggioso, dignitoso, mai noioso e, infine, quarantenne meraviglioso e un uomo degnodella U maiuscola, in un mondo della F.1 e anche in un Pianeta Terra che vedono sempre più scarseggiare personalità così preziose, toste e luccicanti.
Bello, allora, bellissimo, il podio del Qatar, perché illuminato dal sorriso di Alonso che è anche il nostro, quello di tutti gli appassionati. Noi tutti che abbiamo imparato ad apprezzare le prime rughe sul suo volto e che amiamo quel suo essere verace e genuino avendo rinunciato da un pezzo a recitare la parte del buono e quella del buonista .Perché nelle corse le cose si possono fare in tre modi: come non vanno fatte, come andrebbero fatte e come le fa Fernando Alonso. E in F.1, dal 2001 a oggi, Fernando Alonso è uno di quelli, forse l’unico, a non passare alla leggenda per il numero di vittorie ma per il quantitativo d’emozioni - belle e non solo belle -, che riesce a regalare. Perché Alonso terzo, in una domenica come quella di Losail, non è solo un risultato ma il nome d’un sovrano titolare d’un impero e di una storia bella, ormai un po’ antica, ovvero la sua. Alla quale, dai e dai, puoi volere solo un mare di bene.
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