Che bello rivedere vincere la McLaren

Che bello rivedere vincere la McLaren

Debutto in F.1 nel 1966, la squadra fondata dal compianto Bruce nei decenni è stata data per spacciata non meno di quattro volte, ma è sempre riuscita a rifondarsi, risorgendo dalla sue ceneri

13.09.2021 13:54

Centosettanta gare di digiuno dal successo, dalla prima senza Hamilton, nell’ormai sideralmente lontano 2013, ed ecco che la McLaren risorge a Monza con la doppietta Ricciardo-Norris vivendo un giorno storico, nostalgico e pure romantico. Perché la squadra di Colnbrook, Woking e quindi di Paragon, è ormai l’ultimo team superstite del ceppo storico di quelli che Enzo Ferrari chiamava gli assembatori, visto che la concerrente Williams in realtà rispetto a essa è nata, si è affermata e consolidata anni dopo, vincendo il primo mondiale nel 1980, mentre la McLaren di Teddy Mayer, succeduto al capostipite ed eroico gruce, morto mentre collaudava una delle sue creature Can-Am a Goodwood il 2 giugno 1970, si era già affermata nel 1974 conquistando l’iride piloti grazie a Emerson Fittipaldi, che per uno di quei giochi magici e sovrannaturali del destino era a far festa a bordo podio a Monza, in compagnia del promettentissimo figlio Emmo. Fantastico. La F.1 ha sempre più bisogno di radici, di segnali d’appartenenza, di nomi forti e di agganci dolci con la storia e veder rivivere un marchio così glorioso e dal nome musicalmente evocante diecimila episodi emozionanti di una F.1 che non c’è più, fa bene all’anima, vivifica il sangue e lancia segnali stupendi nonché per certi versi salvifici ed epocali.

Perché, oltre a essere viva e vegeta, la McLaren a oggi è l’unico team di F.1 nato una volta sola ma dato per spacciato almeno in quattro occasioni e quasi con tanto di reperto autoptico. La prima volta, appunto, nel 1970, con la morte di Bruce McLaren e il passaggio delle consegne gestionali sulle spalle del suo giovane e inesperto pupillo Teddy Mayer, supportato da Tyler Alexander. Sembrava tutto finito e invece quelli del team, allora orgogliosamente orange papaya più che mai, si limitarono a smettere di piangere e a proseguire i loro impegni in F.1 e Can-Am, ampliando addirittura gli orizzonti per una colonizzazione in F.Indy, divenendo vincenti ovunque. Fitti iridato, Hunt pure, nel 1976, ma poco dopo pure la gestione Mayer perde spinta propulsiva e la Marlboro mette in mora il team dicendo chiaro: o sterzate inserendo qualcuno di nuovo e tosto nella gestione, oppure vi lasciamo e chiudete.

Mayer si impunta e la McLaren sembra morire per la seconda volta, sbagliando tre macchine in due anni, sino a che, a fine 1980, arrivano nel team Ron Dennis e il suo tecnico di fiducia John Barnard, che danno vita alla fantasmagorica e rivoluzionaria Mp4/1, la prima monoposto di F.1 tutta in carbonio, che, gestionalmente e anche semanticamente, nella sigla, segna l’ingresso del Project Four di Dennis nell’antico ceppo McLaren, col risultato di rifondare la squadra che dominerà gli Anni ’80 e non solo con Lauda, Prost e Senna, fino ad Hakkinen e Hamilton, l’ultima, vera, grande e meravigliosa scoperta di Ron Dennis, che vince l’ultimo titolo per il team nel 2008 a Interlagos, in volata sullo sfortunato Massa.

Bene, da lì in poi qualche altro bel bagliore, ma sostanzialmente nient’altro alla voce gloria, fino al momento in cui i due grandi soci Ron Dennis e Mansour Ojjeh litigano e il primo è costretto a fare le valige e il secondo invece esce ahimé di scena per morte naturale, lo scorso giugno. Parliamoci chiaro, dopo l’addio stizzito di Dennis, già a fine 2016, si riparla di fine della McLaren, qualcuno  di imminente terza morte, che diviene quasi quarta e nondimeno la tragedia del ritorno flop della Honda, con la nuova separazione a fine 2017 e il matrimonio momentaneo con la Renault, preludio alla fornitura ben più aggressiva (ri)ottenuta dalla Mercedes.

Nel bel mezzo, all’interno di una lotta per la sopravvivenza e l’altra, ci sono pure riassetti, rimaneggiamenti azionari di quote e soci, l’entrata in campo solida e salvifica del fondo sovrano bahrenita Mumtalakat e la progressiva crescita di potere di Zak Brown, il quale diventa infine a ragione o torto il simbolo della caduta del team ma poi anche quello della resurrezione. La quale coincide non certo e non solo casualmente con l’arrivo di un caposaldo dirigenziale e gestionale quale Andreas Seidl, dirigente sportivo già fortissimo team principal alla Porsche endurance dal 2014 al 2019 e adesso sugli scudi per il concreto, fattivo ed efficacissimo lavoro di consolidamento e ristruttururazione portato avanti alla McLaren della nuova era, che torna al trionfo proprio a Monza, la pista più storica di tutte, quella in cui la tradizione, l’epica e gli snodi narrativi più entusiasmanti dell’intera saga della F.1 hanno sempre saputo vivere i momenti più spiazzanti ed eroici. Il discorso, alla fin fine, sta tutto qui.

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La McLaren è una fenice capace di risorgere dalle sue ceneri forse all’infinito, a dispetto degli alti e bassi, dei declini, dei su e giù delle umane cose, riuscendo ogni volta a riprendere la scia dell’onda vincente e a sfruttare occasioni di rilancio. Nacque e cominciò in F.1 grazie alla creatività, al talento imprenditoriale, tecnico e agonistico del neozelandese Bruce McLaren nel 1966, poi divenendo tra le pochissime in grado di vincere in F.1 in F.Indy e a Le Mans (che tripla corona!) e rinasce ancora una volta in questo Gp d’Italia grazie all’australiano Daniel Ricciardo, anche lui originario del Continente Nuovissimo. Carezzato dallo sguardo commosso di Emerson Fittipaldi, il primo iridato McLaren F.1 della lunga storia, e dall’esultanza di Zak Brown e Andreas Seidl, artefici ciascuno a suo modo dell’ennesima, inattesa ma a questo punto mai ultima revivescenza.

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Perché la McLaren è questa. Nei decenni, oltre il suo primo mezzo secolo, cresce, mai si distrugge e sempre si trasforma, mutando per sempre il destino dei suoi uomini. Domenica 12 settembre è toccato a un nuovo manipolo di neosognatori, ai quali è riuscito l’atteso miracolo. In una F.1 sempre più alla ricerca di radici perdute, di magnetismo condivisibile e di credibilità antiche e ancora spendibili, la McLaren torna a vincere e anche a smuovere, a piacere e a commuovere.

Perché vedere trionfare ancora una McLaren, per un attimo è come sentire vivi tanti nomi ad essa legati, vale tanto quanto un sorriso di Ayrton, un guizzo di James Hunt o i bassettoni di Fittipaldi medesimo che batte di un’incollatura Clay al Glen 1974. Perché noi tutti a forza di combattere contro le McLaren che furono, c’eravamo intristiti all’idea di perdere per sempre questa rivale meravigliosa e rivederla sfrecciare al top fa piacere doppio, in quanto la riguadagnata feconda giovinezza d’una nemica carissima ci riporta ai giorni più belli e intensi della nostra.


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