La Ferrari SF-24 non ha vinto il titolo, ma ha lottato per esso fino all'ultimo GP e questo la rende, forse, la miglior monoposto del Cavallino in tutta l'era ibrida; l'eredità che lascia non è solo tecnica, ma anche spirituale: ecco perché
Tra le battutacce del volgo, ce n’è una che fa sorridere. E’ un po’ scorretta e recita più o meno così: di mamma ce n’è una e sai sempre chi è, è sul padre che a volte ti devi fare due domande… Spiritosaggine popolana con un fondo di verità, e valida, a volte, anche per le vetture di Formula 1. Perché soprattutto nell’epoca delle grandi squadre, degli uffici tecnici giganteschi e delle F1 figlie non più di una sola mente ma del collettivo, individuare un solo ingegnere quale firma del progetto è sbagliato, oltre che fuorviante.
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Non siamo più nell’epoca dei Forghieri, che si facevano tutto in casa dal cambio al motore, e che andavano in Inghilterra a studiare i primi rudimenti aerodinamici. Non siamo più neanche nell’era dei Barnard o dei Murray, altri due geni con fisse e idee tutte loro. Siamo nell’epoca dei direttore tecnici che delegano, dei capi progettisti che non sappiamo a volte neanche come si chiamino, degli chief technical officer e dell’ufficio tecnico divise in tre macro aree con a capo una figura diversa, tra responsabile dell’aerodinamica, del telaio e della meccanica, per tacere di chi sovrintende l’area motori. Un'accozzaglia di nomi che rende impossibile voler ricondurre a tutti i costi una macchina alle idee di un solo uomo, anche perché ogni squadra ha il suo modo: Ross Brawn era un direttore tecnico ma non disegnava neanche un bullone, Adrian Newey buttava già le linee guida del progetto, le faceva sviluppare da gruppi diversi e poi faceva la sintesi, altri DT invece lavorano coordinando i reparti, intervenendo laddove una finalità aerodinamica, per dire, si scontri con una esigenza del telaio, creando un dubbio tra prestazione e affidabilità.
Poi ci sono le macchine, come la Ferrari SF-24, che tanti padri li ha avuti davvero, e non solo come modo di dire. Perché la SF-24, progetto interno 676, è nata con Enrico Cardile, ha vissuto il periodo estivo con Vasseur ad interim, si è riscoperta veloce con gli ultimissimi spunti di Loic Serra, il nuovo DT, ma tutto questo senza dimenticare chi ci ha lavorato sin dall’inverno scorso, ovvero i vari Fabio Montecchi (Chassis Project Engineering), Marco Adurno (Vehicle Performance), Diego Tondi (Aerodynamics) oltre a Matteo Togninalli (Track Engineering) e Diego Ioverno (Chassis Operations nonché Direttore Sportivo), senza dimenticare Enrico Gualtieri, a cui è affidato il ruolo di Technical Director Power Unit. Sono stati soprattutto loro la continuità nel burrascoso periodo estivo, quando la SF-24 ha ripreso a soffrire di rimbalzo aerodinamico mentre nell’ufficio tecnico, almeno da un punto di vista di struttura del personale, regnava un po’ di confusione: Cardile, fino ad allora direttore tecnico con responsabilità su telaio e aerodinamica, se n’era andato lasciando un vuoto ricoperto appunto da Vasseur e poi stabilmente occupato da Serra, con un ruolo però riconvertito dopo l’accordo iniziale. Non era, insomma, il contesto migliore per far progredire la SF-24, che invece proprio sul finire dell’estate ha cominciato a riprendere a correre, finendo per essere fortissima in autunno. Questo spiega tre cose: che le qualità tecniche ed umane a Maranello le avevano, la metodologia pure e che, soprattutto, a volte è più un bisogno esterno quello di sapere a tutti i costi e con precisione quale nome corrisponda a quella carica piuttosto che interno.
I dubbi dell’estate erano probabilmente figli anche della vecchia gestione, quando l’assenza di un direttore tecnico riconosciuto aveva creato un po’ di dubbi. La genesi e soprattutto l’evoluzione della SF-24, invece, ci hanno ricordato appunto che è l’ufficio tecnico a dover funzionare a prescindere, anche se ci sono inevitabili cambiamenti nell’organigramma: Cardile, seppur bistrattato, alla fine ha lasciato in eredità un progetto potenzialmente vincente, mentre i vecchi collaboratori, anche senza di lui, hanno saputo andare avanti estraendo il massimo da un progetto cresciuto a dismisura durante l’anno. Da macchina buona solo per i trasferimenti di carico longitudinale, con predilezione per i circuiti “estremi” come Monza o i tracciati cittadini, la SF-24 si è riscoperta ottima nella gestione delle gomme, veloce nelle curve ad alta percorrenza, addirittura formidabile su un tracciato completo e indicativo come quello di Austin. E’ rimasto qualche difettuccio, come la difficoltà a stabilizzare le temperature tra l’asse anteriore e posteriore sul giro secco, ma ha trovato una bella quadra scoprendosi forte su tutti i fondamentali che servono ad una monoposto per vincere. L’aver risolto, in relativamente poco tempo, i problemi di rimbalzo aerodinamico emersi inaspettatamente tra giugno e luglio, è un altro, enorme merito dell’ufficio tecnico di Maranello: essere stati in grado di reagire così in fretta è stato da grande squadra.
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Ecco perché, in qualche modo, quello che lascia la Ferrari SF-24 è più di un’eredità strettamente tecnica o ingegneristica. Le vetture di F1 dopo un anno sono un progetto da migliorare, dopo due pezzi da museo utili solo per qualche test: eppure, stavolta, il lascito potrebbe essere anche più grande. L’eredità, se vogliamo chiamarla così, è innanzitutto filosofica: perché questa monoposto è stata una rottura definitiva con il recente passato di Maranello, soprattutto rispetto alle abitudini ed alle convinzioni di binottiana memoria. Nella precedente gestione, in maniera anche fin troppo esasperata, ci si era convinti con estrema testardaggine che per vincere servisse innanzitutto cercare di partire più avanti possibile in griglia: quello certamente aiuta, ma non serve a niente se poi le gomme in gara durano pochi giri. Frédéric Vasseur, insomma, ha dovuto lavorare innanzitutto sulla mentalità di una squadra che si era dedicata fin troppo all’ottimizzazione del giro veloce: partire davanti aiuta, ma poi serve essere forti in gara. E questa non è stata una rivoluzione solo per l’ufficio tecnico: anche il tipo di lavoro portato avanti, sia in fabbrica che nei programmi delle prove libere, è stato a poco a poco cambiato da un capo che ha individuato e poi eliminato in fretta certi retaggi del passato. E poi, la SF-24 è anche la prima macchina da un po’ di tempo a questa parte che finisce l’anno in crescendo in maniera convinta: c’era riuscita anche la SF-23, ma era nata come una macchina troppo deficitaria per peggiorare ancora durante l’anno. La SF-24 è partita benino, è regredita a metà anno, si è rialzata sul finale di stagione: 5 vittorie sono un bottino sul quale lavorare con cura per la prossima stagione.
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Qui veniamo al punto: 5 vittorie è un bel numero, considerando la base di partenza. Non è bello, però, che la SF-24 abbia chiuso la sua carriera agonistica senza corona: perché se avesse perso come ha perso contro la Red Bull, che partiva da 21 vittorie su 22 colte nel 2023, sarebbe stato persino più accettabile; aver perso invece contro una McLaren che ad inizio stagione non teneva il ritmo della 676 fa più male, e rende più dolorosa una sconfitta iridata che, seppur giunta in un’annata molto positiva, sempre una sconfitta rimane. La Ferrari SF-24, purtroppo, non è stata in grado di evitare al Cavallino Rampante il suo digiuno più lungo di sempre alla voce titolo Costruttori: la traversata nel deserto più duratura, finora, era stata quella di 16 anni tra il 1983 ed il 1999. L’anno prossimo, se anche dovesse riuscirci la futura SF-25 (o come si chiamerà), di anni ne saranno passati comunque 17. C’è gente che sta per diventare maggiorenne che non ha mai visto la Ferrari vincere un titolo: fa male, fare certe considerazioni. Però, siccome è bello pensare che queste macchine non siano solo agglomerati di tecnologia ma abbiano anche un’anima, non si deve disperdere l’eredità spirituale di questa SF-24, la prima dai tempi della F2012 in grado di giocarsi un titolo fino all’ultima gara. Non c’era riuscita la SF70H con i suoi cinque successi, non c’era riuscita la SF71H che, con le sue sei affermazioni, resta la monoposto più vincente mai uscita dai cancelli di Maranello in tutta l’era ibrida. Né l’una né l’altra, però, erano state in grado di alimentare un sogno fino all’ultima gara: magari la concorrenza all’epoca si era dimostrata anche più forte, ma i fatti sono cocciuti e dicono che la SF-24, per come si è presentata a fine stagione, è stata una delle migliori, se non la migliore in assoluto, macchina progettata dalla Ferrari dal 2014 ad oggi. L’augurio è che, come altre Rosse non iridate ma comunque vincenti in gara, la SF-24 possa essere stata una base per il futuro. Magari, se il futuro della Rossa sarà roseo e vincente, ci ricorderemo del lascito di questa SF-24. E non ci chiederemo neanche più chi sia il padre, perché alla fine non conta da dove vieni, ma dove vai: conta essere una Ferrari. E comportarsi come tale.
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